Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 25
2 - 2021 mese di Dicembre
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
VECCHIAIA, NEOVECCHIAIA E PSICOANALISI
di Secondo Giacobbi

La vecchiaia è un tema che solo da qualche tempo ha trovato udienza nella letteratura psicoanalitica. Per molti anni, con l’eccezione antica di Jung, che alla vecchiaia e al vecchio riservò grande interesse, gli psicoanalisti si occuparono poco di vecchi e di vecchiaia, anche perché il paziente vecchio (che, nell’accezione di Freud, era un uomo che aveva superato i 50 anni) era assente dagli studi analitici. Ma in questi ultimi decenni la trasformazione del ciclo di vita ha cambiato la situazione e i contesti. Si vive molto di più e per molto più tempo che in passato la maggior parte degli anziani può conservare e prolungare una presenza attiva nella società e nelle professioni. La stessa vita privata dell’anziano si è trasformata: più dinamica, più ricca di interessi e di prospettive, ed anche di ambizioni intellettuali, autorealizzative, amorose. Ad esempio sono significativamente più frequenti che in passato le separazioni coniugali. Ecco dunque che, negli studi degli analisti, compaiono sempre più frequentemente sessantenni e anche settantenni, insoddisfatti di sé e della loro vita, con problemi coniugali, con vicende amorose anche complicate, con domande di senso, su di sé e sulla propria storia, che chiedono di essere accolte in piena legittimità di domanda. Di conseguenza, oltre alla pratica clinica, ecco che la stessa letteratura psicoanalitica si è sempre più interessata al tema della vecchiaia.

Tra le ultime pubblicazioni, segnaliamo “Vecchiaia e psicoanalisi “a cura di Corsa, Fattorini e Vandi, edizioni Alpes, Roma 2020, un volume a più contributi, tra i quali particolarmente interessante ci pare quello di Rita Corsa (“La neovecchiaia ovvero essere anziani nell’era cibernetica”). L’autrice è una psicoanalista SPI, che ha dedicato profondo interesse alle biotecnologie e alla ricaduta che queste hanno sulla vita umana e sulla prospettiva di trasformazioni (e sui rischi di alienazione) che ne conseguono.

Dopo una panoramica della storia del cosiddetto “transumanesimo”, che si può fare iniziare nel 1960, quando Robert Ettinger fonda le prime associazioni criogeniche, che provvedono al congelamento dei corpi e dei cervelli di deceduti, in attesa di una mitica resurrezione a venire, quando gli sviluppi futuristici della scienza sconfiggeranno ogni malattia. Il movimento del transumanesimo produce il primo “Manifesto Transumanista (o dei Mutanti)”, che prevede, attraverso l’uso della tecnologia, il superamento della condizione umana, per approdare a quella “postumanità”, composta da super-uomini macchinici, immuni alle malattie, al deterioramento senile, alla stessa morte. Si tratta, osserva Rita Corsa, “di concezioni che paiono oscillare tra l’utopia e il delirio “, che rispecchiano “tante fascinazioni della contemporaneità occidentale ( … ) che ha la sua Mecca nella mitica Silicon Valley”. Di fronte a simili fenomeni radicalmente inediti, la Corsa indica due modelli interpretativi contrapposti, quello “tecnofobico” che “vaticina un futuro prossimo apocalittico” e quello “tecnofilico”, “ciecamente entusiasta delle straordinarie virtù di una scienza libera da qualsiasi vincolo”. Tra le voci critiche, l’autrice cita il filosofo R. Marchesini, per il quale “si sta assistendo a una radicale azione antropopoietica” ( … ) che “si tradurrà in un definitivo e pieno asservimento alla tecnologia”. E il filosofo svedese Nick Bostrom, transumanista pentito, prevede che “nel giro di poche generazioni, sarà davvero possibile mutare il substrato dell’umano, attraverso il motore dell’intelligenza artificiale. Si tratterà di un rischio esistenziale imponderabile, che potrebbe trascinare l’uomo all’autodistruzione”. Rita Corsa osserva come quella che Green chiama “il lavoro del negativo, il lavoro del distacco da parte del soggetto non può avere luogo: la macchina diventa un oggetto ostruttivo, che non può essere negativizzato e che veicola una potente imago di indistruttibilità, dalla quale è impossibile liberarsi”. Green parla di un vero e proprio “soggetticidio”, a favore di uno sconfinato narcisismo individuale. “Si è man mano sgretolata la cornice identitaria del soggetto, costituita dal ruolo strutturante delle identificazioni edipiche, (…) dal ruolo del limite e dalla confusione del sentimento di identità”.

Inoltrandosi più specificamente nel tema della “neovecchiaia”, Rita Corsa osserva come un “giovanilismo negazionista connota le età che, sino a pochi decenni fa, rientravano a pieno titolo nella fase senile. E ricorda come Bollas indichi, tra le coordinate entro cui si svolge il pensiero post-moderno: “l’operazionismo, cioè un modo di adoperare la mente in tempi quanto più possibile veloci, centrando il suo lavoro piuttosto che sul pensiero inconscio su quello operativo” e la “omogeneizzazione, invero lo sradicamento delle differenze in modo da plasmare il mondo secondo configurazioni comuni”. Tutto ciò porta per Bollas “a pericolose derive antropologiche, con inibizione del pensiero umano e dello stesso lavoro dell’analisi”. E Semi osserva che “l’impronta narcisistica del nostro tempo sta soppiantando la soggettività con la individualità, fatta di nicchie identitarie che mirano a una libertà senza vincoli, a un appiattimento delle differenze” e si chiede se “l’umanità è in pericolo?”

E di fronte al fenomeno del protrarsi della sopravvivenza senile, come effetto degli sviluppi della tecnologia medica, anche ben oltre la possibilità, per il vecchio, di conservare autonomia e dignità, S. Giacobbi scrive: “molti vecchi, vecchi sempre più numerosi, si ritrovano spogliati della dignità “in una sorta di condizione artificialmente “fetalizzata “. E Fukuyama, in L’uomo oltre l’uomo, riconosce che le ricerche biogenetiche “possono realmente minare le basi democratiche delle società e mutare decisamente la natura umana. Preoccupato per il crescente aumento degli anziani, Fukuyama sostiene che “i giovani diverranno una rarità, una specie in estinzione. Si potrebbe dire che per combattere la morte si finisce per combattere la vita. Ogni individuo, ogni società, ogni tempo, scrive Rita Corsa, “...si contrappongono alla morte con le armi in loro possesso, compresa la fede abbracciata. Nei nostri giorni, gli strumenti a disposizione e la fede professata sembrano essere riposti nelle biotecnologie, nel dio macchina, negli abissi d’infinito digitale. Mai dio fu più stolto e caduco”. E conclude, davanti agli scenari generati dal Covid-19, “abbiamo bisogno di un rinnovato umanesimo dell’età terminale della vita, che sappia narrare della nostra fugacità e finitezza”.

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