Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 15
2 - 2016 mese di Dicembre
ABBIAMO LETTO...
L’IO, IL SUO DOPPIO E LA MALEDIZIONE PSICOPATOGRAFICA: QUANDO LA COSCIENZA FA DA AUTORE
di Gianni Minerva

Il doppio, benché fortemente legato alla cultura otto-novecentesca, affonda le sue radici nell’antichità diffondendosi soprattutto ad un livello antropologico e religioso. Nell’antico Egitto il principio vitale, denominato Ka, è un doppio del corpo che sopravvive alla sua morte. I corpi, per essere conservati, venivano imbalsamati e mummificati seguendo un metodo tradizionale che si riteneva risalente alla mummificazione di Osiride. Nell’abbracciare il concetto di doppio si deve attraversare il campo semantico del sosia, dell’ombra e dello specchio, tutti aspetti affini alla duplicazione dell’io; volendo poi navigare in campo letterario molti sono i romanzi e racconti che hanno trattato, per vari motivi, il doppio o l’altro da sé. In tal senso, non potendo scindere la letteratura dalla psicoanalisi si cercherà di scivolare senza entrare troppo nel merito.

A partire dalla seconda metà del XIX secolo la nozione di doppio ritornò ad essere familiare per la cultura e società europea, non solo per merito di scrittori come Hoffmann, Poe e Wilde, ma anche attraverso l’applicazione psicoanalitica che ne fecero Freud e, prima di lui, Otto Rank.

Nelle culture arcaiche le relazioni tra l’io e il suo doppio non assumono tratti patologici, ma conservano un carattere di quotidianità. In altre parole, il doppio consente uno scambio visibile con un settore non visibile di sé stessi.  Otto Rank, nel 1914, diede alle stampe un lavoro intitolato Il Doppio che nella traduzione italiana reca il sottotitolo Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore. Rank partiva da una serie di casi letterari in cui comparivano talune figure di duplicazione e, sulla base delle immagini comuni e ricorrenti, concludeva che l’effetto estetico perseguito dai diversi autori era identico in quanto identica era la loro struttura psichica. Secondo lo studioso scrittori e poeti condividevano tutti “una personalità nettamente patologica […]. Tutti soffrivano di chiari disturbi psichici o di vere e proprie malattie nervose e mentali” – ad esempio Maupassant era affetto da varie patologie – la predisposizione alle quali favoriva fenomeni di scissione della personalità. Le ragioni di quella “armonia sovraindividuale” non va cercata nell’immedesimazione emotiva instauratasi tra il poeta e il suo lettore, “di cui non sono consapevoli né l’uno né l’altro, e che conferisce a questi motivi una misteriosa risonanza spirituale”.

In seguito lo studioso passava dall’individuazione dei tratti patologici, quali fonte delle creazioni di finzione, all’analisi dei tratti non patologici, comuni a tutti gli individui, quelli che consentono a chiunque di partecipare del senso delle esperienze narrate: tradizioni etnografiche, folkloristiche e mitologiche venivano messe in relazione con determinate caratteristiche individuali al fine di giustificare talune rappresentazioni di carattere superstizioso. Da tale svolta discende l’intuizione forse più valida dello studioso, quella coincidente con l’idea che la prima concezione della duplicazione dell’io sia da collegare all’esperienza dell’ombra.

Racchiuso all’interno dell’istituzione letteraria, il fenomeno del sosia è apparso come una delle più antiche e inquietanti manifestazioni della pazzia. In quella che viene definita “medicalizzazione della follia”, essenziale nell’Ottocento, alcuni psichiatri distinsero due fenomeni rappresentanti un equivalente psicopatologico delle situazioni narrative descritte da Rank. L’autoscopia, da una parte, come possibilità di “allucinare o immaginare il proprio corpo duplicato nel mondo esterno”; dall’altra, la personalità alternante come “la metamorfosi subita da certi soggetti” che mutano in modo temporaneo e accessorio sia carattere sia personalità. È facile accostare i personaggi di Goljadkin di Dostoevskij e William Wilson di Poe per il primo fenomeno, mentre il dr. Jekyll di Stevenson per il secondo; è anche vero però che per quest’ultimo la trasformazione viene indotta mediante l’assunzione di un filtro chimico.

La nascita della psicoanalisi consente di spostare il concetto di sosia in altri ambiti. Freud aveva compreso e dimostrato, nei suoi saggi, come la manifestazione di personaggi nei sogni notturni possono essere intesi come doppioni del sognatore, rappresentando personificazioni di aspetti parziali della personalità censurati da quella parte della coscienza vigile durante la veglia. Sono questi doppioni a suffragare i desideri proibiti, normalmente racchiusi e lontani da un possibile appagamento nella vita reale. E recentemente il cinema ha riproposto, in alcuni film come Insidius, proprio questo aspetto di freudiana memoria.

L’unheimlich o perturbante freudiano non può essere enucleato senza la paternità di Rank e del suo studio. Ciò nonostante Freud conduce il suo lavoro immergendosi nel racconto di E.T.A. Hoffmann “Il mago sabbiolino” (o “L’uomo di sabbia” in alcune traduzioni) che fa parte della raccolta dei racconti i Notturni. Secondo lo psicoanalista l’autore del racconto ha la capacità della manovra psicologica; il concetto della rappresentazione perturbante dell’automa Olimpia, bambola dotata di vita apparente, viene accentuato da un aspetto molto più inquietante, che regala il nome al racconto: il motivo del mago sabbiolino che strappa gli occhi ai bambini. Questa fobia instillata nella mente del protagonista da bambino si condensa nello scorrere delle pagine conducendo verso un abisso senza fine. L’uomo della sabbia vuol essere non solo l’analisi dell’anima di un alienato ma, secondo i suggerimenti freudiani, la registrazione dei movimenti di un meccanismo innestato dal complesso di castrazione: come se tutto germinasse dall’identità incrinata di Nathaniel, dal suo fissarsi su un’immagine narcisistica (la bambola Olimpia) che lo distoglie da un reale oggetto d’amore (la fidanzata Clara).

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