Questo articolo doveva comparire insieme ad altri articoli, di tutti noi allievi di Cremerius, così da formare un libro. Il progetto sembrava essere sempre sul punto di diventare operativo, ma poi questo non accadeva, il tempo passava e così non è stato mai pubblicato, è rimasto nel cassetto per oltre 10 anni. Va quindi letto in questa ottica, come parte di un insieme di resoconti sulla figura del professore. E infatti in alcuni passi faccio riferimento ad altri scritti ed esplicito che mi sono dato il compito di commentare soprattutto il primo periodo in cui Cremerius è venuto a Milano in quanto io sono stato fra i primi a frequentarlo. Così anche penso diventi chiaro perché mi soffermi sul contesto culturale e politico entro il quale si operava negli anni ’70 e perché dia cosi tanto rilievo al rapporto che si è venuto instaurando fra di noi. Volevo che si capisse l’importanza che aveva avuto come formatore e in particolare che cosa avesse significato per me frequentarlo per così tanto tempo come allievo e poi come amico (ci incontravamo di frequente, al di là degli incontri di lavoro), dire anche che uomo fosse. Insomma era mia intenzione dare un taglio molto personale alla mia testimonianza; altri avrebbero detto la loro e ne sarebbe uscito un quadro composito ed esauriente.
Rileggere l’articolo ora mi ha portato ad alcune considerazioni. In primo luogo sono passati solo alcuni anni, ma è come se la figura di Cremerius si fosse molto allontanata nel tempo, quasi facesse parte di un’epoca sepolta nel passato; e , insieme a lui, il periodo in cui io e tutti gli altri siamo stati suoi allievi. L’irrompere tumultuoso di tante teorie, le nuove pratiche terapeutiche, le innovazioni farmacologiche, il diverso clima culturale, le scuole di psicoterapia, la crisi economica, le nuove patologie: la psicoanalisi oggi è ben diversa da quella di allora, soprattutto nel suo declinarsi sul piano pratico, nel quotidiano svolgersi della professione.
Quello comunque che balza in forte evidenza in tutto lo scritto è l’enorme stima che provavo per il professore, al confine di una vera e propria idealizzazione. Ero alle prime armi, cercavo maestri in cui credere, probabilmente ero io stesso ad avere bisogno di una guida-modello da mettere sul piedestallo. Va detto però che era lo stesso Cremerius a conferire alla sua attività di formatore una enorme importanza, ad attirare un forte investimento sulla sua figura. E con lui la psicoanalisi tutta. Ci sentivamo partecipi di una meravigliosa avventura che portava con sé grandi promesse. Mentre ora stiamo facendo i conti con il volto nascosto della idealizzazione, quello depressivo, se non persecutorio.
E infine, proprio in virtù del tempo trascorso, mi riesce di focalizzare con maggior puntualità che cosa dell’insegnamento del professore ha più lasciato un segno.
Di Cremerius soprattutto mi resta… la psicoanalisi. Continuo a ritenere validi i principi di fondo del suo insegnamento, li do come un dato acquisito. Non è una cosa di poco conto, di fronte ad un quadro teorico tanto variegato, così confuso e confusivo, come quello odierno. Forse si tratta di un atteggiamento mentale di comodo, di stampo conservatore. Mi sembra però del tutto legittimo sottoporre il nuovo al vaglio del vecchio, mi si deve dimostrare che vale di più. Ad esempio oppongo resistenza alla svolta relazionale , quando vuole proporre l’intersoggettività come un nuovo paradigma che esclude il precedente. Il passaggio della psicologia a due persone ha l’enorme merito di schiodare l’analista dalla posizione di osservatore imparziale che lo ingessa in una posizione autoritaria, se non pedagogica e di legittimarlo a sentirsi parte dello scambio senza avvertire la propria soggettività come una sorta di impurità da sanzionare; ma non può pretendere di occupare tutto il campo, pena il sovvertimento dei principi che stanno a fondamento della terapia. Mitchell scrive : “ Io non considero la comprensione della mente del paziente da parte di un analista come una congettura migliore in qualche senso generico o obiettivo, ma piuttosto come la congettura migliore di quel particolare analista, che fa parte della sua esperienza e si verifica nel contesto delle configurazioni predominanti di transfert e controtransfert”. Molto liberatorio : c è quella analisi , di quell’analista con quel paziente. E va bene così. Però ne consegue che se non c’è un’analisi migliore, salta la distinzione fra ciò che è bene e ciò che non lo è o che magari fa anche male, fra quello che è giusto e quello che è sbagliato. Insomma non c’è problema e non c’è discussione, di notte le vacche sono tutte nere. Giusto l’opposto di quello che pensava Cremerius. Naturalmente è del tutto condivisibile l’osservazione che nello svolgimento dell’analisi c’è un che di casuale e di imponderabile, ma il lavoro sta nel tentativo di circoscriverlo se non di venirne a capo, di dare coerenza all’intervento ; qui invece si arriva a dire che l’imponderabilità è costitutiva dell’analisi.
Si sostiene che è la relazione che conta per la terapia, mentre il significato non è dato dall’elaborazione razionale della associazioni libere dell’analizzando da parte dell’analista. Aron afferma: “Il significato è relativo, multiplo e indeterminato e si ritiene che ciascuna interpretazione sia passibile di continue e infinite nuove interpretazioni… Si arriva al significato grazie alle menti che si incontrano”. Benissimo, ma ci si dimentica che il paziente è lì con noi proprio perchè impedito a quell’incontro. Certo, la terapia si nutre dello scambio, ma si tratta di arrivarci, e ci si arriva tramite il lavoro sulle difese! E poi, io mi chiedo, cos’altro possiamo fare, se non interpretare?
Orange, Atwood e Storolow affermano che le regole della tecnica terapeutica servono solo a “replicare strutture massicce di accomodamento patologico sia nel paziente che nell’analista”. Povero Cremerius, che sprecava così tanto tempo nel mettere a punto le tecniche da seguire per il paziente!
Secondo Renik il paziente è una sorta di consulente che aiuta l’analista a capire meglio il proprio coinvolgimento, Hoffman considera il paziente un “legittimo interprete dell’esperienza dell’analista”. Il rapporto si fonda sulla mutualità, sulla reciprocità, è “simmetrico”. Benissimo,anche in questo caso, ma quanta ingenuità! Che ne facciamo del paziente che vuole essere lui a comandare, dei trabocchetti della seduzione o dell’ubbidienza o della passività; e come ci muoviamo con il narcisismo distruttivo del borderline ecc..! Ccon tutto questo buonismo e tutta questa democrazia, non si corre il rischio di comportarsi come quei tanti bravi genitori che pensano di interpretare il loro ruolo facendo l’amico dei loro figli?
Questi autori mettono il carro davanti ai buoi, confondono il traguardo con il punto di partenza. Reciprocità e mutualità si costruiscono nella relazione; il paziente, proprio perché è il paziente, non può fare altro che opporre resistenza. Cremerius raccomandava: mai dire la verità al paziente, l’analista giuoca con le carte coperte!
Un autore di tutt’altra tendenza, Resta, afferma che la nevrosi di transfert chiude paziente e analista in una prigione , in una condizione di reciproca irrisolvibile dipendenza. Il suo scritto è molto interessante e sono in buona misura d’accordo con lui, ma mi viene da replicare che la prigione non è l’esito o l’artefatto di un costrutto tecnico imposto dal metodo, ma se l’è costruita il paziente ed è lui che ce la mette addosso. Resta sostiene anche come vada discussa “l’onnipotenza della causalità” e che “ la riabilitazione delle categorie della libertà e della contigente porta a una concezione di una vita psichica in termini di probabilità più che di necessità”.
Si accusa insomma il procedimento analitico di rivolgersi all’indietro, di rinchiudersi in ciò che è stato invece che verso il nuovo, le possibilità che offre il futuro. L’argomentazione è complessa e andrebbe discussa senza ricorrere a delle estrapolazioni. Mi viene comunque da osservare che è il paziente, non l’analista a muoversi secondo il principio di causalità. L’essenza della nevrosi è la ripetizione, lungo una catena causale che parte dal passato. L’analista non può che seguirne le tracce, è il paziente che lo costringe in questo percorso a ritroso.
Oggi ormai siamo diventati tutti psicoterapeuti. Mi sembra curioso il fatto che proprio io abbia sempre sostenuto di essere uno psicoterapeuta e non uno psicoanalista , al fine di sottrarmi al dogmatismo del cerimoniale analitico, attento alle sue regole e non alle esigenze del paziente; e che ora mi ritrovi a difendere i vecchi, desueti principi tecnici sui quali prima nutrivo così tante perplessità, me li ritrovi come costante punto di riferimento. Però adesso stiamo passando il segno, si avalla tutto. Per me resta valida l’indicazione di sempre: capire insieme al paziente quello che lui non capisce di se stesso, per dargli la possibilità di cambiare. Là dove c’era l’Es che ci sia l’Io. Questo significa che dobbiamo tener fede ad un costante atteggiamento interpretativo sia verso il paziente come anche verso noi stessi, visto che si dà adesso così tanta importanza al controtransfert (a patto però di non dimenticare che il controtransfert è inconscio e che quindi dobbiamo sempre dubitare delle nostre percezioni piuttosto che giocherellare con loro e avere chiaro che “la macchia cieca” rimane quello che per Freud è l’ostacolo alla terapia).
In due parole: si lavora sul transfert e non nel transfert, chiediamo un setting affidabile (che permetta al paziente la necessaria regressione al servizio dell’Io), manteniamo l’atteggiamento obiettivante dell’osservatore, lavoriamo sulle difese,non rinunciamo al principio di causalità e al punto di vista economico ecc… Questo non significa negare il coinvolgimento o impedire il libero dispiegarsi della fantasia ; e neppure che non si faccia altro, in base alla considerazione che si deve lavorare e non possiamo inventarci il paziente su misura. Anch’io accetto la seduta settimanale, lavoro vis a vis, addirittura prescrivo farmaci o rimando nel tempo tanti interventi nell’attesa che cresca la motivazione, ma non si possono contrabbandare queste pratiche terapeutiche, peraltro anch’esse di sicuro valore, per psicoanalisi, come sembra ormai si stia facendo; mentre è essenziale porle a confronto con la metodica classica così che si sappia ciò che si sta facendo rispetto a quello che si potrebbe fare. Questo permette di mantenere l’atteggiamento analitico anche mentre, per forza di cose, lo si sospende e non si opera in senso propriamente analitico. È il vecchio Cremerius che continua ad indicarmi la sua strada.