Psicoanalisi e cognitivismo.
Commento al caso “La mente come rifugio del corpo” di Silvia La Chiusa

 
Guido Medri

 Scarica il documentoScarica

Una delle caratteristiche di questa rivista è che i lavori presentati, in particolare relativamente alle situazioni cliniche, siano sempre seguiti almeno da un commento. Il comitato di redazione ha deciso che fosse uno di noi ad occuparsene in questo caso, per motivi relativi alla peculiarità del lavoro presentato.
Il primo motivo riguarda la pertinenza del tipo di trattamento rispetto al contesto. La nostra infatti è una rivista che ha tutti i componenti della redazione il cui lavoro si fonda sui princìpi della teoria e della tecnica psicoanalitica, mentre qui la tecnica seguita si ispira al cognitivismo e si presenta quindi come un corpo estraneo rispetto all'insieme. Se però il tema che intendiamo sviluppare è quello della “pratica psicoterapeutica”, non si vede come lo si possa escludere. Ringraziamo anzi la collega che ce lo ha inviato. E dobbiamo farle anche i nostri complimenti visto il brillante risultato conseguito nel giro di poco più di un anno.
Il secondo riguarda, ovviamente, le modalità del trattamento. L'unico intervento che mi suona familiare è quello in cui mostra alla paziente come la sua mente lavori escludendo il corpo, ossia un intervento sulle difese, quella in special modo dell'intellettualizzazione e del controllo. Per quanto riguarda il resto si fa tutto il contrario di quello che prevede una terapia orientata analiticamente. Noi cerchiamo di distogliere il paziente dall'accanirsi sui suoi disturbi così che incominci a parlare di se stesso oltre che delle sue paure. In questo caso invece il focus dell'attenzione è tutto sul sintomo, per come insorge e prende piede, per le circostanze che lo causano. Lo scopo evidentemente è quello di dare alla paziente una maggiore capacità di controllo sulla situazione ansiogena e sui movimenti emotivi che essa suscita. Se la finalità è chiara non capisco bene però cosa faccia il terapeuta e quindi anche in che modo e perché la paziente sia guarita del sintomo. Mi si può replicare che non so nulla della tecnica usata e non posso capire come si sviluppa; e che, se il risultato c'è, non si discute, è la prova che l'approccio funziona. Tutto questo è senz'altro vero, ma vorrei lo stesso capirne di più, altrimenti mi resta il dubbio che la risoluzione del sintomo possa far parte dei benefici per così dire secondari dell'essere in terapia, senza che nel corso della stessa si sia davvero risolto il problema.
Nella mia pratica clinica ho visto scomparire spesso delle fobie, soprattutto se limitate ad una situazione specifica (come in questo caso), ben prima di esserne venuto a capo per quanto riguarda l'elaborazione della loro genesi e del loro significato. La guarigione probabilmente era un effetto secondario, aspecifico, di un contesto terapeutico che, poiché offriva rifornimenti narcisistici o garantiva un momento di aiuto e di rassicurazione, permetteva al paziente un'attività di controllo meno esasperata e disfunzionale. Ne derivava un grande sollievo. Sappiamo infatti che dopo qualche tempo il problema non è la situazione fobica, ma l'allarme che essa suscita in anticipo e poi l'allarme per l'allarme della situazione. Da qui un controllo sempre più serrato dell'ansia anticipatoria con l'effetto contrario a quello sperato; poiché, paradossalmente, più ci si difende dal moto pulsionale e più esso ci si avvicina; la difesa per così dire si istintualizza. Un'altra ipotesi era che il paziente spaventato dall'indagine analitica ricorresse alla guarigione per cavarsi d'impiccio. Tutte spiegazioni che se si avvicinano alla verità dei fatti lasciano però ampi margini di incertezza. Potrebbe essere accaduto qualcosa del genere anche in questo caso.
È poi importante il rilievo che la guarigione sintomatologica si dava non solo senza che l'analista se la proponesse, ma addirittura contro le sue intenzioni, nella consapevolezza che, se era il disturbo a portare alla terapia, nel caso esso si fosse risolto diventava probabile che il paziente perdesse la motivazione al trattamento. Va detto però che nel corso di una terapia analitica, peraltro iniziata sulla base di una richiesta d'aiuto per il sintomo, accade che il sintomo sia ancora lì anche dopo anni di trattamento, mentre qui abbiamo la soluzione e in tempi brevi. Certamente, ma occorre distinguere a quale problema la fobia si riferisce.
Vediamo la situazione da un punto di vista dinamico. Non abbondiamo di notizie, ma le poche che abbiamo sono sufficienti. Il sintomo insorge in occasione del viaggio di nozze, ritorna quando ci si dirige verso destinazioni “esotiche” (verso la scoperta, la sessualità), ha a che fare con il timore di affidarsi, di lasciarsi andare, “volare”, in aereo ecc. Dalle note biografiche è evidente quanto sia tormentato il rapporto con il padre (quando egli ha un altro figlio la paziente viene bocciata e incomincia a sentirsi ansiosa). La fissazione dunque è a livello edipico, con i relativi problemi sul piano della femminilità e sessualità e le classiche difese dello spostamento, della razionalizzazione, del controllo sulle emozioni ecc., in una personalità per il resto ben strutturata. Abbiamo dunque a che fare con una isterofobia. Ne è ulteriore prova la motivazione alla terapia della paziente: non sono più una bambina, voglio vincermi. Vale a dire: debbo uscirne vincente laddove si tratta invece di fare il percorso contrario, di diventare più dolce, di abbandonare la gabbia della posizione fallica, di arrendersi, in qualche modo di perdere. Se la fobia nasconde invece, come a volte nella claustro e agorafobia, una disposizione simbiotica oppure angosce persecutorie, come in alcune fobie dello sporco o delle infezioni, oppure un nucleo psicotico, come nella paura di impazzire, ci vogliono per l'appunto anni di lavoro, se tutto va bene. Ma credo sia lo stesso per il cognitivismo. Ho appena visto un paziente rupofobico che dopo 5 anni di terapia cognitiva con un famoso terapeuta sta come prima, se non peggio. Più scrivo e più diventa evidente che sto tirando l'acqua al mio mulino. La verità è che non mi riesce di vincere la difficoltà ad accettare un procedimento che ha come mira unicamente una riorganizzazione delle difese, nella più totale ignoranza del significato del sintomo, e quindi un procedimento del tutto collusivo con le resistenze del paziente. I due approcci sono non tanto diversi quanto antagonisti per principio, già a partire dalle rispettive finalità. Ho notato più sopra quanto la scomparsa del sintomo stia a significare il successo della terapia cognitiva comportamentale e alternativamente il fallimento della terapia analitica se il paziente poi se ne va. Certo però non si può non essere attratti dalla linearità dell'intervento e dal suo risultato. La paziente porta una fobia, la terapeuta lavora sul tema, la paziente si sbarazza del sintomo. Il tutto all'insegna di una più che sicura alleanza di lavoro. Paziente e terapeuta lavorano insieme, portano avanti un compito, applicano una tecnica. E vengono premiate per la loro fatica. Dovremmo forse puntare senza tentennamenti a quello che comunque ci accomuna; poiché è indubbio che tutti noi vogliamo aiutare il paziente. E riflettere sull'opportunità in senso clinico dei due approcci. Capisco quindi come da più parti si cerchi una mediazione fra psicoanalisi e cognitivismo malgrado il salto epistemologico che le divide, nella constatazione che entrambe hanno manchevolezze che presentano il fianco a pesanti critiche, di macchinosità la prima, di superficialità la seconda. Credo che questo tema meriti assolutamente di essere ripreso e poiché è la prima volta che mi si affaccia come domanda e ne so così poco mi piacerebbe giungessero contributi da chi conosce meglio l'argomento. Sono molti ormai e da diverso tempo gli analisti e i cognitivisti che lavorano insieme.