La balbuzie e il padre

 
Laura Pigozzi

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Il balbuziente canta volentieri e, sulla base di questo, taluni operatori considerano questa sua dote un principio di cura. Nelle analisi che seguono vedremo se questo è corretto o meno, ma intanto domandiamoci cosa c'è nel canto che lo attrae tanto e perché proprio nella melodia il suo sintomo tace.
La realtà della balbuzie è stata recentemente riportata all'attenzione del pubblico dal bel film "Il discorso del re" di Tom Hooper, dedicato a Giorgio IV dove si racconta di un logopedista un po' sui generis, almeno per l'epoca, che prende in carico non tanto il sintomo della balbuzie in sé, ma si rivolge al re come persona, come soggetto, in una dinamica che mette in gioco i due uomini facendoli entrare in una relazione transferale di tipo anche analitico. Il terapeuta fa cantare il re, come ricorderà chi ha visto il film, ma non lo cura in questo modo, gli fa semplicemente capire che, come nella stragrande maggioranza dei casi di balbuzie, la perturbazione del suo eloquio non ha alcuna origine fisica, biologica, meccanica. La svolta avviene quando il re, sollecitato dal terapeuta - e non senza opporgli una certa resistenza - finalmente comincia a ricordare qualcosa della sua infanzia, iniziando un cammino che lo porterà a dire d'impeto - comprendendo solo un attimo dopo ciò che ha detto - "io ho una voce" e così, finalmente, a ritrovarla davvero.

Perché nel canto il balbuziente non balbetta? Il canto prolunga ed esalta la vocale, mette cioè l'accento sul lato materno della lingua, sulle sonorità appunto del vocalico, mentre il lato paterno è dato dalla scansione ritmica delle consonanti presenti nella parola o nella frase.
La dimensione sonora vocalico-materna, tipica di quella lingua privata tra madre e bambino che chiamiamo mammanese, esalta proprio quel godimento fusionale madre-bambino che dal corpo passa nella lingua.
In ogni parola è possibile considerare una parte vocalica, come suo luogo sonoro, e una parte consonantica come suo luogo ritmico. Nel canto si allunga il tempo delle vocali perché è proprio nella vocale che il suono si esprime con pienezza. Quando, invece, si desidera dare un maggior vigore ritmico si accentua l'impianto consonantico della parola e della frase. La scansione data dalla consonante rappresenta il ritmo nella successione temporale, dimensione che esalta l'ordine interno della parola e che é in rapporto, appunto, con la dimensione paterna che mette l'accento sulla separazione e sulla scansione del mare vocalico in segmenti ritmici che indicano un ordine.
Come si relaziona il balbuziente a questi due aspetti costitutivi della lingua e del soggetto?

Quando la funzione paterna riesce, cioé quando il padre fa il padre, semplificando un po', permette al figlio di costruire qualche cosa e trasmette, insieme a questo insegnamento anche un tempo e un ritmo, quindi una cornice, un limite, un quadro entro cui poter realizzare. Il ritmo, infatti, impone una forma precisa ad ogni flusso e il ritmo della voce paterna dà una organizzazione al reale del suono che é intimamente connesso alla dimensione materna. La funzione paterna è trasmissione di un limite, nel cui riconoscimento è possibile la sapienza di un fare. In questo passaggio di coordinate d'esperienza un figlio impara a realizzare qualcosa: nel limite c'è protezione e generazione mentre nella sua mancanza, nell'illimitato, c'è vaghezza paralizzante: il padre di Giovanni soleva dirgli: “tu puoi fare qualsiasi cosa”, non permettendo a Giovanni di realizzare neanche una cosa.
Quando la funzione paterna ha sufficiente riuscita, nel senso che essa permette al figlio di costruire qualche cosa, essa trasmette insieme all'insegnamento anche un tempo e un ritmo, pensabili come varianti e declinazioni del concetto di limite.
Senza ritmo non ci sarebbe musica ma solo fluidità di un suono senza misura. E il ritmo é precisamente la scansione del sonoro ed é esattamente ciò che il balbuziente inconsciamente contesta: egli, infatti, incespica proprio sul ritmo. La balbuzie è, infatti, definita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità come “un disordine nel ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono.”
Egli ottiene una durata indefinita prolungando le vocali e spostando così sempre più in là il momento in cui dovrà affrontare la consonante, la quale dà il ritmo proprio imponendo un arresto, un limite al flusso vocalico. Il risultato inconscio di questo spingere in là il limite è il restare immersi (sommersi?) nell'universo sonoro lungo e melodico della madre. L'effetto dell'atto di balbuzie è spesso la ripetizione di una sillaba - ad esempio taa-taaa-ta, baa-baaa-ba, ecc. - con un indefinito prolungamento del suono vocalico, che riporta alle lallazioni del periodo neonatale.

Caso 1. M. era un professore universitario che, durante le lezioni, incespicava sempre sulla sillaba “ma”. Inutile dire che gli studenti attendevano con ansia il presentarsi di una parola con quel suono e per la quale non gli riuscisse immediatamente l'abituale sostituzione con un sinonimo dal suono diverso. Degno di nota è che sia il nome che il cognome dell'insegnante iniziavano, appunto, con la sillaba “Ma”. La pseudo lallazione cui il suo balbettare dava origine era dunque la ripetizione della sillaba ma-ma-ma-ma, suono in cui è facile riconoscere la parola mamma.

Il bambino riceve dalla voce della madre la melodia affettiva e da quella del padre la scansione del tempo e della regola: senza ritmo, senza regola non ci sarebbe parola, né frase. Ora, il balbuziente sembra poter accedere solo in modo imperfetto alla organizzazione ritmica del discorso che viene sconvolto in maniera arbitraria e inconscia. Ciò che ne risulta é un'inconsapevole contestazione dell'ordine paterno, del padre in quanto colui che, sul piano simbolico, ordina il suono, cioé lo organizza. Il balbuziente nel suo sostare indefinitamente dentro la sonorità del fonema, prolunga la vocale e mostra così di non tollerare la separazione dal mondo materno indicato dal sonoro. Rendendo arbitrario il ritmo e la sua funzione di separatore di suoni, il balbuziente pare, caparbiamente, contestare e opporsi alla funzione paterna di separatore dalla madre.
La balbuzie si scatena nel bambino in occasione di traslochi, cambiamenti di scuola, o eventi simili. Non possiamo non rilevare che si tratta sempre di episodi riconducibili, per un qualche verso, ad un cambiamento di “ordine” nel mondo del bambino che non riconosce più la regolarità e il ritmo del proprio ambiente. Questo sconvolgimento delle cadenze abituali del bambino può essere l'episodio scatenante di uno sconvolgimento ritmico della lingua, già preparato da traumi precedenti che coinvolgono la relazione al padre, su cui s'innestano anche motivi di sofferenza più recenti.

Caso 2. In genere, il balbuziente perturba il ritmo al fine di restare nell'enfasi del suono. Ma di quale suono esaspera il tempo d'emissione? Non certo di uno qualunque: ce n'è sempre uno iniziale che è la sua croce o che sovente appartiene ad un significante traumatico. Pietro era un uomo a cui, per lavoro, capitava spesso di parlare in pubblico e, a causa della materia di cui si occupava, doveva pronunciare innumerevoli volte il significante “Società”: la cosa che principalmente lo amareggiava era il suo continuo ed inarrestabile incespicare proprio sulla “s” iniziale di “Società”, parola per la quale non gli era sempre agevole trovare un sinonimo, secondo la classica tecnica usata dai balbuzienti. La madre di Pietro un giorno gli ricordò che egli aveva cominciato a balbettare in pubertà, dopo la “s”-eparazione dei due genitori: un evento traumatico, a suo tempo non affrontato, e che, persino da adulto, uomo fatto e con figli, non riusciva evidentemente ancora ad accettare. Non a caso il suo lavoro era di consulente di Società: un patto tra Soci è esattamente l'opposto di una Separazione. Nel pronunciare la parola-amuleto “Società”, non gli riusciva, però, di tener lontano l'altra, l'opposta, la detestata “Separazione”, che naturalmente faceva ritorno sotto forma di un ostinato sostare e ripetere la “s”, lettera iniziale comune ai due significanti opposti. Non stupisce questo fatto, anche tenendo conto che, come ricorda Freud, le parole opposte si equivalgono nell'inconscio, proprio come avviene nel caso di Pietro per i due significanti Separazione - Società. L'inconscio non opera con la contraddizione, né con la negazione: spesso nel sogno una stessa immagine può significare se stessa e il suo contrario. Non stupisce allora che per Pietro la parola “Società”, evocasse inconsciamente il suo contrario traumatico, a cui, per di più, risultava legata dall'assonanza iniziale in cui lui s'incagliava, rivelando un trauma che permaneva, a quel tempo, inelaborato, per di più non essendo ancora riuscito ad affrontare il tema della propria separazione.

Si comprende che la balbuzie non si può affrontare certo cantando: far cantare un balbuziente sperando di aiutarlo é, al contrario, incistargli il sintomo perchè se da un lato egli, cantando, si può sentire meno deficitario, dall'altro lato il canto, offrendo un appoggio sonoro, lo radica ancor di più nel sintomo e nella sua origine: il canto non può, dunque, essere una terapia della balbuzie.
Tuttavia ciò non significa che l'esasperazione sul controllo ritmico della parola possa giovare: i metodi di cura che si sono adottati per la balbuzie s'intestardiscono, ancor più dei pazienti che dovrebbero curare, sull'aspetto di controllo fonetico che rende la voce un po' robotica e il normale canto interno ad ogni voce si stereotipizza in un'innaturale cantilena. Alcune tecniche di cura usano addirittura il metronomo: apparecchio che scandisce il tempo musicale, utile nello studio della musica, ma da abbandonare presto per evitare l'inespressività dell'esecuzione. Hoffmann ci offre una bella immagine di questa artificiosità con l'inquietante Olimpia, bambola meccanica abilissima nel canto e nel suonare il piano, che tradisce la sua natura inumana offrendo una performance con un tempo da metronomo, innaturalmente perfetto.

Nella gola del balbuziente qualcosa si incastra. Se è vero che egli perturba il ritmo contestando il ruolo paterno di castrazione della relazione confusiva madre-bambino, possiamo dire che ciò che il balbuziente non manda giù è il rospo della castrazione. Diverse osservazioni hanno portato a verificare che durante l'anno di leva molti balbuzienti peggioravano, dal momento che non tolleravano l'inasprimento dell'autorità, come se nella cadenza del passo militare, che esprime sonoramente un mondo di ordini indiscutibili, riverberasse la cadenza del tempo e del ritmo imposto dal padre alla fluenza della lingua.
Ma la cosa ancor più interessante è che, al contrario, per alcuni di loro “l'anno di leva è stato liberatorio, rivelandosi altamente terapeutico. Il trovarsi in questa nuova situazione, lontano dall'ambiente famigliare, per alcuni soggetti il periodo militare è stato fonte di riscoperta di abilità sociali inaspettate.” Come se si fossero liberati da un eccesso di protettività materna che produce un sostare nel suono e un mancato transito dal suono del significante alla sintassi di esso, insomma al linguaggio.


Freud riporta il caso di Emmy von N. che balbettava e, contemporaneamente, schioccava la lingua con uno strano suono che Freud non avrebbe saputo riprodurre, ma che “colleghi intenditori di caccia che l'avevano udito, ne paragonavano i suoni finali al grido amoroso dell'urogallo”. Il sintomo era il risultato di una “controvolontà" nata nel periodo in cui ella era al capezzale della minore delle proprie figlie, la meno amata; veglia durante la quale la donna si era imposta di stare assolutamente zitta per non svegliare la ragazza. L'insorgere della controvolontà di produrre suoni e rumori era da mettere in relazione al fatto che, alla nascita della bambina, il marito della signora era improvvisamente ed inaspettatamente morto per un attacco di cuore. La balbuzie insorgeva in Emma ogni volta che un evento inaspettato ed improvviso, reale o immaginario, irrompeva nella sua vita, rieditando la cornice d'imprevedibilità in cui il marito era morto. La donna si era lamentata di non aver potuto assistere il marito morente a causa della neonata da accudire. Il legame inconscio che ella stabilì tra la morte del marito e la sopravvivenza della figlia, era sufficiente all'insorgere di una parola alterata dal tic della balbuzie proprio nel momento in cui ad aver bisogno di cure era proprio la figlia minore, inconsciamente accusata di averle impedito di seguire il marito malato. L'atto di parola perturbato è allora il risultato di una doppia corrente: tacere per non disturbare la figlia e parlare per disturbarla, a causa di quell'accusa inconscia nei suoi confronti. Alla balbuzie la donna aggiungeva lo schiocco della lingua -il grido d'amore dell'urogallo- che immaginiamo rivolto al marito scomparso. La lotta tra il proponimento di tacere e la controvolontà di dire, “ha dato al tic il suo carattere intermittente” , seguendo meccanismi che Freud riconoscerà più precisamente nella Psicopatologia della vita quotidiana, testo posteriore di un paio di anni.
Freud riporta la balbuzie allo stesso meccanismo nevrotico che si ritrova nelle follie epidemiche del medioevo dove “non a caso i deliri isterici delle monache medioevali consistevano in gravi bestemmie ed erotismo sfrenato”. Rappresentazioni represse, dunque, che vengono convertite in azione.
Otto Fenichel riprende la scoperta freudiana evidenziando, nella natura di atto mancato del balbettare, un gesto in cui il soggetto vuole e non vuole dire qualcosa. Ciò che è oggetto di una tale incertezza è una parola che avrebbe un'origine sadico-anale, nel senso che il significante che si vorrebbe dire - e che non si osa - è di tipo anale, osceno, quindi, censurato. Le funzioni sfinteriche sono spostate verso l'alto in una conversione di tipo pregenitale dove, se il sintomo è isterico, la struttura che lo sorregge è, però, di tipo coatto-ossessivo. Il balbettio è, secondo Fenichel, il tentativo inconscio di usare parole volgari per aggredire chi ascolta con violenza o sessualmente, in maniera del tutto simile a ciò che fa l'ossessivo che, normalmente, preferisce usare parole molto sobrie per tenersi più lontano possibile dalla parola oscena che potrebbe affiorare non censurata. A volte nel bambino, quando cessa la masturbazione anale insorge la balbuzie: in questo caso le parole prendono il posto delle feci, le significano. Nella nevrosi di coazione si rinnova lo stadio infantile in cui le parole erano onnipotenti: se le parole possono uccidere, il balbuziente ci crede alla lettera, perché una volta lui stesso è stato ucciso dalla parola paterna.

Esistono balbuzienti eccellenti per i quali si potrebbe proporre una lettura che tenga conto di un certa quota d'isteria creativa. Nella contestazione dell'ordine linguistico paterno, che il balbuziente inconsciamente opera, è leggibile anche una variante alla lingua comune, alla lingua della doxa. Si tratterebbe, insomma, di accedere ad una lingua altra, poetica o narrativa, cosi com'è stato effettivamente l'esito di alcuni dei balbuzienti eccellenti che hanno popolato la storia: ad esempio Esopo, Virgilio, Malherbe. Lewis Carroll, Cervantes, Alessandro Manzoni, Italo Calvino . In questo senso, risultano ancora più chiari i danni di una riabilitazione meccanica che uccide ogni possibilità d'invenzione linguistica. In realtà, in quanto sintomo psichico, la balbuzie probabilmente sarebbe affrontabile meglio con l'arte che con la tecnica. Un'arte che non può essere quella del canto, che accentuerebbe l'indulgere nel sonoro propria del balbuziente, ma potrebbe forse essere quella dell'invenzione poetica che mantiene il soggetto nel linguaggio paterno senza eccessivi irrigidimenti. In questo modo si creerebbero le condizioni per una sublimazione dell'ostinata contestazione in un progetto creativo.
Una creatività che per sua stessa natura deve confrontarsi con ciò che è diverso, fuori dal comune, in un certo senso straniero. Non a caso l'etimo di balbuzie è legato a barbaro: i greci chiamavano così coloro che non parlavano greco e sembravano quindi affetti da balbuzie. In sanscrito balbuziente è barbarah: il significato si è esteso poi, presso i Romani, ai popoli d'oltralpe, assumendo il senso di incivile. Balbuziente e barbaro sono coloro che parlano male la lingua. Nel nostro mondo attuale chi parla male la lingua è l'extracomunitario a cui si chiede, infatti, quale prima forma di integrazione, quella di parlare la lingua del paese ospitante.

La balbuzie mette a nudo una caratteristica dell'umano e cioè la comune mancanza di padroneggiamento del significante: l'uomo è abitato dal linguaggio, non lo abita. Pensare che l'uomo vi si possa insediare con facilità e lo possa gestire abilmente sembra essere, invece, il presupposto implicito delle varie cure della balbuzie oggi diffuse. Il linguaggio, al contrario, non si lascia mai dominare e la balbuzie è l'evidenza dello scacco di quest'illusione.
Cosa che, invece, capì il balbuziente Mosé. Nella Sacra Scrittura si dice che egli era tardo di lingua e balbuziente : per lui, infatti, parlava il fratello Aronne. La storia è nota: durante i quaranta giorni che Mosé passa nel deserto, il popolo si ribella ed Aronne ripristina l'idolatria facendo costruire un vitello d'oro. Gli ebrei si abbandonano al nuovo culto: una malata guarisce a contatto con l'idolo, vergini si offrono nude in sacrificio scatenando un'orgia. Quando Mosè torna, Aronne si difende dicendo che il popolo ha bisogno di un'immagine e che anche le tavole della legge in fondo non sono che un'immagine. Per Aronne tra immaginario e simbolico non c'è differenza. Mosè spezza allora le tavole e pronuncia “O parola, parola che mi manca!”. Sul vaneggiamento che può portare l'immagine, la religione ebraica nullifica lo sguardo a vantaggio del suono della voce di Dio che il corno d'ariete rende minacciosamente presente durante i più importanti riti. La parola sfugge, al contrario dell'invadenza dell'immagine.
Il balbuziente Mosè mostra che tutti siamo un po' balbuzienti perché la parola manca sempre: tutti quanti noi, balbuzienti o no, parliamo male la lingua del padre.