ELEMENTI DI TECNICA DELLA PSICOTERAPIA PSICODINAMICA DELLE PSICOSI SCHIZOFRENICHE
				
di Ciro Elia
				
				
				Vorrei in primo luogo
chiarire perché parlo di psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico di queste
patologie. La tecnica della psicoterapia delle psicosi è molto diversa dall’analisi
delle nevrosi sia per le caratteristiche della relazione nel senso che si
tratta di una relazione più coinvolgente e interattiva, all’inizio soprattutto
ad opera del terapeuta, (spesso il terapeuta ha la sensazione di avere a che
fare con un figlio); inoltre il transfert positivo del terapeuta e la sua
identificazione col paziente vengono attivati prima di quelli del paziente,
anzi sono volti a suscitarli: da questo punto di vista la visione della terapia
è chiaramente di tipo bi-personale e anche intersoggettivo. Poi gli interventi
che si effettuano sono costituiti oltre che da quelli interpretativi anche da
interventi non-interpretativi; seguendo M. Gill (1994) ritengo che il criterio
intrinseco fondamentale che permette di considerare queste psicoterapie come
psicoanalitiche è l’analisi del transfert “quanto più si può” (pag. 67), alla
quale io aggiungo anche l’analisi del controtransfert per quanto è possibile.
Dobbiamo per altro essere consapevoli del fatto
che come in ogni terapia psicoanalitica molta parte dell’interazione tra
analista e paziente avviene sul piano inconscio. I criteri estrinseci, cioè
frequenza delle sedute, durata, posizione corporea reciproca (il divano), ecc.,
non sono di grande importanza soprattutto nei primi anni di terapia: la
flessibilità del terapeuta e del setting è uno degli elementi che permettono di
raggiungere il primo obiettivo, e cioè che il paziente si trovi bene nel
colloquio con noi.
Come ho detto sopra, oltre agli interventi
interpretativi utilizzo anche interventi non interpretativi con una loro logica
e un senso, in modo che possano essere integrati e correlati a feed-back con i
primi. Ricordo che Eagle (2000), insieme ad altri autori, sottolinea che anche
nell’analisi delle nevrosi i fattori cognitivi e quelli affettivo-relazionali
sono strettamente correlati e agenti in modo da poter modificare gli schemi
affettivo-cognitivi del paziente. In effetti ragioni teoriche e cliniche mi
hanno portato a cercare un’integrazione tra le due tecniche principali che sono
state adottate dalla psicoanalisi nella terapia psicoanalitica della
schizofrenia: la prima, propria degli interpersonali (Sullivan, Searles, ecc.)
si focalizza sul deficit del paziente schizofrenico e sottolinea la
partecipazione dell’analista, l’empatia, la simbiosi terapeutica; la seconda di
linea kleiniana, centrata invece sull’aspetto del conflitto, tende a
focalizzarsi sull’interpretazione.
Cerco ora per sommi capi di descrivere i
principi fondamentali della tecnica e della teoria della tecnica.
- Come ho già accennato, l’attività e l’identificazione
     del terapeuta che scaturisce anche dal suo inconscio e preconscio è il
     primo movimento del terapeuta: questo permette che successivamente il
     paziente si identifichi con certe caratteristiche personali e con l’attività
     affettivo-cognitiva del terapeuta. La posizione affettiva del terapeuta è
     di quasi-simmetria o mutualità (Aron 1992) rispetto a quella del paziente
     e dà luogo alla possibilità che i vissuti di morte e non-esistenza vengano
     assorbiti, fatti propri dall’analista, e la presenza, l’attività
     contenente e bonificante di questi vengano interiorizzati dal paziente,
     insieme a tutta una serie di comunicazioni che avvengono a livello
     inconscio. Mi riferisco anche ai sogni terapeutici o controtransferali che
     compaiono con una particolare frequenza durante queste terapie e possono
     essere a volte raccontati o più spesso non raccontati al paziente. Inoltre
     faccio riferimento in questo contesto concettuale agli interventi di
     simmetria simbolica descritti da Benedetti (1991), che si fondono sulla
     creatività metaforica dell’analista rispetto alla negatività della
     patologia: queste costruzioni metaforiche hanno spesso la capacità di
     modificare certi vissuti particolarmente radicati, quali le allucinazioni
     negative, i deliri 
     dismorfofobici, le difese artistiche, la frammentazione del Sé.
 
Un altro
tipo di intervento di mutualità che chiamo “narrare a due  voci” è rivolto a certi interessi del
paziente che il terapeuta in qualche modo condivide e che non avrebbe senso
affrontare in maniera interpretativa, perché costituiscono movimenti del
paziente volti ad avvicinarsi al terapeuta, a conoscerlo meglio, a sollecitare
la sua partecipazione, a vedere se ci sono gusti e interessi condivisi. Il “narrare
a due voci” è molto più dell’autodisvelamento del terapeuta, è un dialogo col
paziente costituito da uno scambio di idee, affetti, predilezioni, esperienze,
che segna, circoscrive un’area transizionale nella quale il paziente riesce a
trovare la sua giusta vicinanza col terapeuta: per esempio parlare di cinema o
di sport o di giochi che il paziente e il terapeuta facevano da ragazzini. Si
tratta di interventi che hanno analogie con ciò che la J. Benjamin (2004)
chiama “uno-in-tre” nel rapporto madre-infante, facendo riferimento all’accordo
di un membro con l’altro della diade e all’accordo di ciascun membro col ritmo
creato insieme, ma anche al fatto che i due membri sono a loro volta
influenzati dal ritmo creato insieme. Tale mutua ritmicità, che in certe situazioni
cerco di creare col paziente, si rifà alla concordanza di ritmi e armonie
descritte da Sander (2002) col principio di ritmicità. Tale mutualità si
esprime in maniera più usuale attraverso la mimica del volto e la gestualità
del terapeuta nella posizione vi-à-vis, perché in questo modo oltre agli
affetti darwiniani vengono trasmessi anche gli affetti vitali (ritmo, forza e
forma), e a volte attraverso la comunicazione verbale di affetti.
- Mettere in moto il processo interpretativo
     fin dalle prime fasi della psicoterapia, appena è possibile, è un altro
     dei principi tecnici che adotto, contrariamente al parere della gran parte
     degli psicoterapeuti della schizofrenia. Il processo interpretativo, che
     nelle fasi iniziali della terapia è costituito da osservazioni,
     confrontazioni, commenti, sottolineature, domande che attivano la
     riflessione, può essere piano piano sviluppato secondo diverse linee con
     un’attenzione particolare al timing, alla forma, al tono affettivo, al
     contenuto e all’oggetto dell’interpretazione. Qui, ancora di più che nell’analisi
     delle nevrosi, valgono le raccomandazioni tecniche degli autori
     neo-freudiani P. Gray (1994) e F. Busch (1999) secondo le quali l’interpretazione
     è utile al paziente solo quando si ha la sensazione che egli sia in grado
     di accettare e capire il senso dell’interpretazione almeno a livello
     preconscio. Generalmente le interpretazioni devono essere insature,
     aperte, non calate dall’alto. Inoltre nella prima fase della terapia il
     lavoro interpretativo va rivolto particolarmente alle resistenze che ho
     descritto (Elia 1999) come “resistenze allo sviluppo del transfert
     positivo” e dell’alleanza terapeutica, insieme alle resistenze al
     riconoscimento del transfert (Gill 1982) soprattutto di origine
     superegoica. In linea di massima le interpretazioni fondamentali del
     significato del delirio e delle allucinazioni è più possibile e incisivo
     quando questi fenomeni siano entrati a far parte del transfert. A questo
     punto della terapia si rendono possibili anche le interpretazioni ricostruttive.
 
- I processi di identificazione tra analista
     e paziente e il lavoro interpretativo portano allo sviluppo di fenomeni
     transizionali di cui l’aspetto più clamoroso è il Nucleo Transizionale del
     Sé. Questo manifesta spesso la sua presenza, ma non sempre, durante la
     psicosi di transfert. La psicosi di transfert provoca la crisi dell’organizzazione
     artistico-simbiotico del Sé (questo concetto riguarda il mio modello
     psicodinamico artistico-simbiotico della schizofrenia) e delle difese
     narcisistico-strutturali, dando luogo a una frammentazione più grave del Sé,
     a confusione, accentuazione delle spinte lipidiche e aggressive: un quadro
     sorprendente e drammatico che preoccupa analista e familiari del paziente,
     ma che può portare a una nuova e meno patologica organizzazione del Sé. Il
     Nucleo Transizionale del Sé è costituito dall’integrazione di aspetti
     deliranti o allucinatori del paziente con aspetti cognitivo-affettivi del
     terapeuta. Il Nucleo Transizionale del Sé, fenomeno allo stesso tempo
     ancora delirante o allucinatorio e progressivo, sostiene il paziente nel
     contenere l’angoscia di separazione tra una seduta e l’altra o durante le
     interruzioni della terapia, lo aiuta a riflettere e a ricordare quanto è
     stato detto in seduta, a sviluppare la capacità logiche dell’Io, a rendere
     il Super-io più benevolo: tutto questo permette che faccia la sua comparsa
     in terapia lo spazio potenziale o analitico (Winnicot 1971). Durante il
     trattamento di un mio paziente schizofrenico è comparsa nell’ambito della
     psicosi di transfert la figura dell’Arcangelo Gabriele, che è stato molto
     importante nel progresso del paziente. L’Arcangelo Gabriele, il messaggero
     tra Dio e gli uomini, mantiene una comunicazione concertistica ancora
     delirante tra me e il paziente quando non ci vediamo, ed è il portatore
     dell’annuncio di una nascita o rinascita per lui.
 
 
- Il principio di dissimetria si contrappone
     in maniera dialettica e si integra con quello di mutualità o di
     quasi-simmetria. Già gli interventi interpretativi marcano un’asimmetria
     tra analista e paziente, ma in qualche situazione caratterizzata da grande
     aggressività e a volte violenza che da parte del paziente si rendono
     necessari interventi non-interpretativi a carattere dissimmetrico,
     contro-aggressivo, rispetto all’aggressività del paziente, per la quale a
     volte innumerevoli interpretazioni non sortiscono alcun effetto. Mi viene
     in mente a questo proposito l’affermazione di L. Friedman (1988), secondo
     la quale l’accettazione del paziente e delle sue modalità si deve
     accompagnare alla consapevolezza del conflitto, perché queste modalità non
     vanno bene allo stesso paziente. Questo è uno degli altri paradossi di
     ogni terapia psicoanalitica e a maggior ragione della terapia dei disturbi
     schizofrenici. L’odio e anche la violenza transferale non sono facilmente
     modificabili, in primo luogo perché costituiscono una parte essenziale,
     strutturale del Sé e danno un senso di identicità e vitalità al paziente;
     inoltre l’aggressività va considerata come preservatrice del Sé per i suoi
     caratteri di esplosività e arelazionabilità o relazionalità duale, e di
     assenza della componente sessuale; essa è volta a distruggere l’oggetto
     che viene sentito come molto pericoloso per il Sé. Inoltre l’aggressività
     e la violenza non si modificano se, oltre alle interpretazioni, non
     vengono utilizzati interventi contro-aggressivi, a volte anche a carattere
     corporeo, perché l’onnipotenza proiettata sul terapeuta  dà la sensazione al paziente che
     il terapeuta sia un essere onnipotente o invincibile, che non prova
     dolore, che può sopportare qualsiasi disagio, che non ha limiti.
     Naturalmente interventi contro-aggressivi sono possibili e hanno una
     valenza terapeutica, allorché la relazione tra i due partners ha
     acquistato un carattere positivo, buono, connotato da saldezza e fiducia
     reciproca.
 
Un altro
intervento a carattere dissimmetrico riguarda il tentativo, ripetuto più e più
volte, volto a riportare nell’ambito del Sé del paziente elementi deliranti e
allucinatori, allorché non entrano o non sono ancora entrati a far parte del
transfert. Si tratta di introdurre il principio di realtà condivisa, che con
Peterfreund (1983) si può anche chiamare il modello generale di “conoscenza del
mondo” (pag. 94), cioè la conoscenza di situazioni o cose della nostra cultura
o realtà, come in genere sono prevedibili. Per esempio con una paziente
schizoaffettiva oltre che da aspetti deliranti persecutori è molto disturbata
da “rumori” che i vicini di casa farebbero contro di lei, ho lavorato a lungo,
prima di poter capire il significato delle allucinazioni e interpretarlo,
mostrandone l’impossibilità o assurdità logica. Si tratta di ridurre in questo
modo la forte tendenza proiettiva sull’aggressività, facendo anche vedere l’aspettativa
e anche il desiderio che si crei il clima di guerra con i vicini.
Vorrei concludere con l’augurio che questo
contributo possa stimolare il nostro interesse per la ricerca e l’approfondimento
clinico e teorico della psicoterapia psicoanalitica delle psicosi
schizofreniche, convinto come sono che la psicoanalisi possa dire una parola
importante per questi pazienti.