Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

WORK IN PROGRESS N. 33
2 - 2025 mese di Dicembre
WORK IN PROGRESS
NON È MAI TROPPO TARDI? (PER CONOSCERE LA GRUPPOANALISI)
di Fabrizio Rizzi

Mi è capitato più volte nella vita di sentirmi ignorante: e qualche volta non vergognosamente, ma felicemente ignorante. È successo quando, dopo l’effetto sorpresa di fronte al Non Conosciuto, al posto della mortificazione ho percepito il piacere di incontrare un mondo nuovo e tutto da esplorare con la curiosità eccitata di un bambino. Ma se questo succede a settant’anni appena compiuti, si può dire “non è mai troppo tardi” come il maestro Alberto Manzi che insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani analfabeti nella TV in bianconero degli anni sessanta? Non lo so, forse sono fuori tempo massimo, ma questa felice curiosità infantile è ciò che ho sperimentato mentre leggevo i due libri sulla gruppo-analisi pubblicati da Franco Angeli, a cura di Girolamo Lo Verso e a cui ha contribuito una folta schiera di autori: La clinica gruppoanalitica oggi in Italia e Il lavoro clinico con i gruppi.


I due testi, che sono un primo e un secondo tempo di un vasto e articolato lavoro teorico e clinico, sono stati una felice sorpresa per uno come me con alle spalle una formazione psicoanalitica ma che non ha mai fatto terapia psicoanalitica di gruppo pur essendone incuriosito e attratto. Uno che, nonostante questa attrazione, non ha mai letto qualcuno dei testi fondamentali di gruppo-analisi limitandosi pigramente a qualche articolo. Ammesso che voglia procedere, il lettore (che io immagino assai formato e competente nel campo gruppale) ora è avvertito che questa recensione risulterà zeppa di ingenuità, imprecisioni e scoperte dell’acqua calda. Non so se chi, pur conoscendomi a sufficienza, mi ha comunque proposto di fare questo commento forse contava proprio su questa mia ignorante estraneità all’ambito della gruppoanalisi come valore aggiunto; la stima nei suoi confronti mi ha fatto accettare la proposta senza troppo discuterne. Comunque sia, io ci provo a dire qualcosa, anche perché questi due libri mi sono proprio piaciuti.

Sono così tanti i capitoli (17 nel primo e 16 nel secondo testo) che è impossibile far un commento a tutti, anche se non ce n’è nemmeno uno che non mi abbia dato spunti di riflessione; auto-disciplinandomi al massimo, mi limiterò quindi a nominare quelli che hanno più acceso dentro di me quella curiosità elettrica – con una lieve stimolante scossa – che nominavo prima.

Nel primo volume, il capitolo “La gruppoanalisi soggettuale” di F. Giannone e A.M. Ferraro mi ha letteralmente illuminato nella parte in cui le autrici nominano i pazienti intrappolati nel “fondamentalismo familiare” (p. 87) spiegando che “per loro il gruppo è fonte di angoscia perché è il luogo di attraversamento e della messa in discussione della matrice familiare satura”. Lette queste parole e poi i passi successivi, ho finalmente capito quello che, nelle tante sedute familiari effettuate negli ultimi dodici anni di lavoro in co-terapia con una collega sistemica, non riuscivo a comprendere ma intuivo soltanto, in modo confuso e senza riuscire a concettualizzarlo.


Il capitolo “Lo psicodramma gruppoanalitico” di. G. Gasca mi ha fatto ricordare la mia antica curiosità per questa tecnica, e un goffo tentativo di psicodramma autogestito fai-da-te (della serie “dilettanti allo sbaraglio”) che osai fare con una paziente bulimica fortemente autolesiva per tentare di mobilizzare verso l’esterno la sua aggressività tutta rivolta contro di sé. Avevo solo letto un articolo su Moreno e solo ora ho capito che la mia idea implicita dello psicodramma lo vedeva come semplice strumento catartico. Ora so quale evoluzione ha avuto e credo di aver còlto la specificità dello psicodramma analitico, ben diverso dal modello originario. Tra l’altro, avendo sperimentato come paziente qualche anno fa un paio di sedute di schema therapy (oggi molto di moda) posso dire che, per come l’ho vissuta io e s’è mossa la terapeuta, assomiglia molto allo psicodramma moreniano per i suoi obiettivi catartici (per nulla esplorativi e analitici).

Il capitolo di R. Carnevali “Elaborazioni teoriche di clinica gruppo-analitica alla luce del lavoro con i gruppi in psichiatria” è stato per me doppiamente significativo: da un lato, perché l’autore descrive il suo percorso professionale che ha una quasi totale coincidenza con il mio (tirocinio in Ospedale Psichiatrico poi contratto libero professionale e poi tempo pieno nel servizio sanitario nell’arco temporale 1976 - 2019) ma in ambiti geografici diversi (in Lombardia lui, in Trentino io); dall’altra, perché purtroppo non c’era nella nostra Unità Operativa di Psicologia un Roberto Carnevali con cui potessi imparare a lavorare nei gruppi (arrivò un collega specializzato in terapia analitica di gruppo solo due anni prima del mio pensionamento, per cui rinunciai alla possibilità di un affiancamento formativo lasciando il posto alla mia più giovane e brava collega sistemica).


Mi hanno stupito i capitoli che trattano del fenomeno mafioso, e precisamente: “La ricerca intervento sulla psicologia del fenomeno mafioso” di C. Giordano e “Il terapeuta nel mondo di mezzo: gruppoanalisi e psicoterapia con pazienti di famiglie di mafia” di G. Zizzo. Ho provato ammirazione nel venire a conoscenza dell’opera pionieristica di studio del fenomeno mafioso iniziata da Lo Verso e portata avanti anche dalle le due autrici siciliane. Io vivo esattamente all’estremo nord italico e in Sicilia – che trovo bellissima – ci sono stato solo da turista. Forse ho un’idea stereotipata dell’isola, ma penso che ci voglia particolare coraggio e determinazione per occuparsi di mafia senza essere magistrati o poliziotti. Tanto più se si arriva a tenere un gruppo terapeutico a Corleone, nella casa sequestrata ad un ex capomafia e a pochi metri dalla casa del figlio del boss.

In generale, della gruppo-analisi ammiro la capacità ed il desiderio di farsi strumento di riflessione e critica sociale/politica, ribaltando l’ottica individualistica e l’atomizzazione sociale da tempo prevalenti: una forza “sovversiva” (quella che faceva dire a Freud mentre navigava verso l’America: «…non sanno che stiamo portando loro la peste!») che la psicoanalisi attuale sembra ormai aver perduto, o quantomeno aver lasciato affievolirsi sempre più.

Il capitolo che ho trovato più significativo di questa capacità e volontà di critica sociopolitica è “Dalla gruppoanalisi alla psicoterapia sociale: il passo è breve?” di L. D’Elia che contiene anche interessanti vignette cliniche. Non aggiungo altro perché sarei di parte: anche se non lo sento da anni, considero Luigi non solo un bravo collega ma un caro amico che nel 2007 mi ospitò a casa sua a Roma e mi fece anche conoscere la Comunità Terapeutica che all’epoca dirigeva.


Nel secondo testo il capitolo “Dalla con-fusione alla possibilità gruppoanalitica: gruppi in strutture psichiatriche residenziali” di B. Chipi mi ha talmente coinvolto da farmi, ad un certo punto, commuovere: cosa che m’è successa leggendo certi romanzi o qualche poesia, ma mai con uno scritto scientifico. A un certo punto l’autore scrive: “Questo gruppo è stato prima di tutto un’esperienza umana molto intensa e sono certo che i frammenti clinici riportati ne siano una testimonianza.” Te lo confermo, caro Chipi (a differenza di D’Elia, non ti conosco ma mi permetto di parlarti direttamente e darti del tu). In questo scritto sei riuscito a coniugare rigore teorico e intensa umanità, cosa che non è da tutti. Hai ridato dignità, dato libertà di parola nell’hic et nunc, e fatto sopravvivere nelle testimonianze, ora stampate su un libro, quelle donne che erano da tutti considerate relitti umani manicomiali. Essendo passati più di trent’anni, immagino che se non tutte, molte siano scomparse; ma sono rinate e assolutamente vive nel resoconto testuale delle sedute di gruppo. Che mi hanno fatto tornare alla memoria episodi del mio tirocinio in Ospedale Psichiatrico nel 1976 dove il nostro gruppo di tirocinanti psicologi, sotto l’ala protettiva del Prof. Giorgio Ferlini, cercava di fare cose analoghe a quelle da te descritte, scontrandosi con la cruda realtà della psicosi manicomializzata da un lato e la aperta ostilità di buona parte del personale infermieristico dall’altra.

Ho poi assai gustato “Il lavoro con la famiglia nella gruppoanalisi famigliare” di L. Ferraris: non solo per la continuità teorico-clinica con il già citato capitolo della Giannone e della Ferraro (nel primo libro) e la totale coincidenza tra alcuni concetti descritti dall’autrice (in particolare l’opportunità clinica di poter variare il setting facendo partecipare diversi familiari del paziente) e quella che è stata la pratica terapeutica familiare che abbiamo portato avanti per 12 anni a Trento; ma ancor più significativa per me, la sottolineatura della Ferraris sull’utilità del genogramma come esperienza terapeutica degli allievi in formazione. A pochi mesi dall’inizio della nostra collaborazione, accettai volentieri la proposta della mia collega di farmi il genogramma ; lei mi mostrò e mi raccontò il suo (fatto durante la sua specializzazione); conoscere a grandi linee le nostre rispettive storie, le reciproche famiglie interne, fu utilissimo per creare un affiatamento ottimale che qualche anno dopo riuscimmo anche a descrivere in un articolo [Montanaro M., Rizzi F. (2020), “Il tandem terapeutico: integrazione tra modelli teorici in un’equipe di terapia familiare”, Frattali 1,1, pp. 82-93].


Sono poi riconoscente al collega R. Menarini autore di “Gruppoanalisi del caregiver” perché mi ha fatto conoscere la sindrome Burden (l’ennesima self disclosure della mia ignoranza...), che si differenzia dal più generico burn-out perché si riferisce alla situazione specifica di un care-giver parente di un familiare gravemente malato che non riconosce più l’identità di chi lo assiste. La cosa mi ha fatto riflettere e mi ha fatto ipotizzare un parallelismo che – tenendo ovviamente conto dell’assoluta differenza dei livelli della sofferenza, nonché di contesto/setting – riguarda il ruolo dello psicoterapeuta (che a tutti gli effetti è un care-giver). In vista di un prossimo seminario clinico (e forse anche di un futuro testo scritto con altri tre colleghi) sul prendersi cura di sé stessi da parte degli psicoterapeuti, tra le varie considerazioni sto ragionando sulla situazione in cui da una parte c’è un terapeuta che sente di spremersi al massimo nel percorso terapeutico, dall’altra un paziente che però non solo non vede tale impegno e non mostra alcuna gratitudine, ma anzi attacca il curante squalificandolo in vari modi, talvolta anche sul piano personale e non solo professionale. In non poche supervisioni di colleghi e anche per mia diretta esperienza (solo anni fa con due pazienti, ma il ricordo è ancor oggi sgradevole) ho percepito il vissuto di amarezza che può essere riassunto nel detto: «Tu mordi la mano che cerca di nutrirti». Lo ripeto: la sindrome Burden si riferisce a un contesto e a livelli emotivi diversi, ma credo che ogni collega che lavori almeno da qualche anno conosca, poco o tanto, questo tipo di frustrazione, che in qualche modo appare anch’essa un non-riconoscimento: non solo e non tanto del ruolo e della competenza professionale, quanto dell’aspetto umano personale che il curante ha messo in gioco.

Concludo dicendo che, a proposito di gusti amari o anche solo amarognoli, l’unica piccola goccia di rammarico in questa piacevole e arricchente lettura dei due libri è il fatto di rendermi conto che a suo tempo avrei potuto provare la strada della formazione alla terapia di gruppo. Ma qui, in antitesi al mio super-io, interviene il lato Zen del mio Io che dice che il destino così aveva deciso.
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