Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

WORK IN PROGRESS N. 33
2 - 2025 mese di Dicembre
WORK IN PROGRESS
LE JEU DE L’INDULGENCE (IL RUOLO DELL’INDULGENZA NELLE RELAZIONI)
di Roberto Carnevali

Nel testo si fa riferimento a libri usciti in varie edizioni in anni diversi. Ho dunque preferito, per chiarezza, inserirli nel testo piuttosto che in una bibliografia posta in fondo.

 

Chi di noi potrebbe, leggendo questo titolo, pensare che corrisponda ad Anatomia della dipendenza, libro dello psichiatra e psicoanalista giapponese Takeo Doï, che spesso cito nei miei scritti? Lo cito perché è per me un punto di riferimento basilare, in quanto introduce il concetto di amae, sul quale è imperniata la mia pratica clinica e che per me rappresenta un fondamentale riferimento teorico. Ed è proprio facendo una ricerca relativa ad amae, per vedere se nel panorama internazionale fosse uscito qualche nuovo scritto sull’argomento, che mi sono imbattuto in un libro in lingua francese intitolato Le jeu de l’indulgence, il cui autore è Takeo Doï. Leggendo la scheda (parlo del catalogo Kindle, essendo io un assiduo lettore di e-book in questo formato) ho intuito che potesse essere la traduzione in francese del libro di Takeo Doï Amae no kozo, uscito nella traduzione in lingua inglese/americana come The Anatomy of dependence (Kodansha International, 1973) e in traduzione italiana come Anatomia della dipendenza (Raffaello Cortina, Milano, 1991). Negli scritti segnati in nota [1] cito spesso questo libro, che ho letto nella traduzione italiana andando di quando in quando a vedere nella versione inglese le frasi corrispondenti a certe espressioni particolarmente significative che andavano approfondite. Ed era impossibile andare oltre, perché la traduzione del libro in italiano era fatta dalla versione in inglese/americano, e non da quella originale giapponese (non che io conosca il giapponese, ma nel caso del libro in francese la traduzione fa riferimento a termini giapponesi con cognizione di causa, mentre la traduzione dall’inglese all’italiano, quando è presente un tale riferimento, ha come base il corrispondente termine inglese, o, quando è citato un termine giapponese del testo originale, si fonda comunque sul significato in inglese che il traduttore gli ha dato).


I casi di questo tipo non sono infrequenti. Gran parte degli scritti di Sandor Ferenczi, ad esempio, sono tradotti in italiano dalla traduzione in inglese, e non dall’originale in ungherese. E, come è facilmente comprensibile, la traduzione da una traduzione può comportare un fraintendimento o un errore vero e proprio da parte del primo traduttore che viene a costituire un nuovo testo che da lì in poi diventa omologato all’originale, anzi, viene considerato tale, perpetuando questo errore nelle eventuali traduzioni successive in altre lingue.

La Bibbia rappresenta un esempio importante e significativo di questo fatto. Il testo che la Chiesa Cattolica considera portatore della Parola di Verità è tradotto dalla traduzione greca, e non dall’originale in aramaico, e su alcuni termini si è aperto, in anni relativamente recenti, un contenzioso da parte di chi, conoscendo l’aramaico, sosteneva che certe frasi contenute nella traduzione in italiano avessero un significato diverso da come la Bibbia li propone nella lingua originale. Un esempio è dato, nel Nuovo Testamento, dal celebre riferimento al “cammello che non passa dalla cruna di un ago”, che alcuni hanno sostenuto fosse il frutto di un’erronea traduzione in greco di una parola aramaica che significa non “cammello” ma “gomena”, una corda di elevato spessore usata dai marinai (il che sarebbe molto più sensato come metafora).

È dunque facilmente immaginabile la mia sorpresa nello scoprire l’esistenza di una traduzione in francese del libro di Takeo Doï dove il traduttore, E. Dale Saunders, professore dell’Università di Pennsylvania, dunque statunitense, specializzato in lingue romanze e in giapponese, ha effettuato la traduzione in francese direttamente dal giapponese. Dunque uno studioso di lingua madre americana che conosce così approfonditamente il francese e il giapponese da poter tradurre da una lingua all’altra, dando un titolo completamente diverso da quello di chi ha tradotto lo stesso libro dal giapponese all’inglese/americano (insisto nel definire la lingua parlata e scritta negli Stati Uniti in questo modo perché ho avuto modo di constatare, anche dall’esperienza diretta, come l’inglese parlato e scritto nel Regno Unito e quello parlato e scritto nel continente americano abbiano delle forme espressive a volte molto diverse). E se questo è accaduto con il titolo, possiamo immaginare che ci siano delle profonde differenze anche nell’intero testo (come titolo di questo articolo propongo il titolo francese del libro e una mia ipotesi di sua traduzione in italiano, in particolare relativamente alla parola francese jeu di cui darò conto più avanti).

 

Mi sono così trovato a fare una scoperta che poteva rivoluzionare tutto quello che era stato il mio studio di Takeo Doï e del concetto di amae per moltissimi anni. Ho infatti iniziato a scrivere di amae nel 2008, ma la mia prima lettura di Anatomia della dipendenza risale all’anno in cui il libro è stato pubblicato in Italia, il 1991, e se nel 2008 il conoscere Anthony Molino e aprire con lui una collaborazione, e un’amicizia, che dura a tutt’oggi, hanno risvegliato in me il desiderio di approfondire questo tema anche sul piano teorico, la risonanza che ha avuto in me la lettura del libro di Takeo Doï è stata profonda fin da subito, e amae è entrato fin da allora in me e ha cominciato ad accompagnarmi nel mio lavoro.

Mi sono dunque immerso nella lettura di Le jeu de l’indulgence, cercando di capire somiglianze e differenze tra questo testo, tradotto direttamente dal giapponese, e quello in italiano, tradotto dalla traduzione in inglese/americano. Devo precisare che la mia conoscenza del francese è molto più elevata rispetto a quella dell’inglese, e che posso leggere un testo in francese senza difficoltà cercando eventualmente sul dizionario qualche termine particolare, mentre la lettura dell’inglese è per me molto più difficoltosa, e richiede un frequentissimo ricorso al dizionario o al traduttore per comprendere a fondo il significato di ciò che leggo. Leggere dalla traduzione francese del testo tradotto direttamente dal giapponese è per me dunque molto diverso rispetto alla lettura della traduzione italiana dall’inglese, a sua volta tradotto dal giapponese.

A completare la mia sorpresa e il mio desiderio di approfondire il discorso ho constatato che mentre né l’edizione inglese né quella italiana hanno un’introduzione scritta espressamente da Takeo Doï, quella francese contiene, dopo la prefazione di Yves Pelicier, professore di psichiatria generale e di psicologia clinica all’Università Descartes di Parigi, un Avertissement de l’auteur, che si apre così:

 

Je suis heureux de voir la parution de mon livre Amae no kôzô dans l’excellente version française de Μ. E. Dale Saunders. Comme il y est question d’amae, concept japonais que le traducteur rend par «indulgence», je me permets d’offrir ici quelques mots d’explication sur son étymologie.

 

Doï, Takeo. Le Jeu de l'indulgence: Essai (Connaître le Japon) (French Edition) (p. 18). (Function). Kindle Edition.

 

Sono lieto di vedere la comparsa del mio libro Amae no kôzô nell’eccellente versione francese di M. E. Dale Saunders. Essendo il discorso incentrato su amae, concetto giapponese che il traduttore rende con «indulgenza», mi permetto di offrire qui qualche parola di spiegazione sulla sua etimologia. [traduzione mia].

 

Segue una breve trattazione dell’autore per l’appunto sul significato di amae a partire dalla sua etimologia. Rimando chi è interessato alla lettura diretta del libro (Doï, Takeo, Le Jeu de l'indulgence, l’Asiathèque, Paris, 1988). Qui mi limito a dire che la traduzione in francese è sicuramente apprezzata in modo particolare da Takeo Doï, e che la traduzione della parola amae in “indulgenza” non incontra in lui alcuna obiezione; anzi, è proprio a partire dall’uso di questo termine per rendere amae che l’autore propone le considerazioni della sua nota introduttiva.

Va precisato che la prima traduzione in inglese del libro è del 1973, a soli due anni dalla prima edizione giapponese, che è del 1971. Una nuova edizione inglese venne fatta nel 1981, aggiungendo un capitolo che Doï scrisse qualche anno dopo l’uscita del libro per aggiungere ulteriori chiarimenti sul concetto di amae, intitolato, nel libro in inglese, “Amae reconsidered”. L’edizione italiana, che è del 1991, contiene questo capitolo, mentre l’edizione francese, del 1988, unica, come s’è detto, ad avere una nota introduttiva scritta dall’autore, si conclude al quinto capitolo. Sul senso di tutto ciò si possono fare delle ipotesi.

Sicuramente Doï scrisse il sesto capitolo per una nuova edizione giapponese e fu un’iniziativa dell’editore americano aggiungerlo al testo inglese. Peraltro, questo capitolo aggiunge delle considerazioni importanti rivolte anche, e in modo specifico, alla cultura occidentale. Viene da chiedersi: perché il traduttore in francese non ha incluso nel testo anche il sesto capitolo, importante e voluto dall’autore tanto da far sì che venisse prodotta una nuova edizione in originale giapponese che lo includesse? E se al traduttore in francese, peraltro attento e puntuale, fosse sfuggita la nuova edizione del libro in giapponese col nuovo capitolo, perché Takeo Doï, scrivendo la sua nota introduttiva, non ha fatto rilevare questa mancanza, definendo accurata la versione francese e apprezzandola senza riserve? Sicuramente la nota introduttiva, pur chiarificante sull’etimologia del concetto di amae, non sostituisce gli approfondimenti presenti nel sesto capitolo dell’edizione giapponese e anglo/americana. Leggendo la denominazione della collana in cui il libro è incluso nell’edizione francese, “Connaître le Japon” possiamo ipotizzare che l’editore francese abbia ritenuto eccessivamente specialistico e indirizzato agli “addetti ai lavori” il sesto capitolo, ma il libro contiene anche in precedenza riferimenti specifici a scritti specialistici, e questa motivazione appare decisamente incongrua.

Restando nel dubbio, possiamo evincere che il lettore occidentale ha a disposizione alcune traduzioni (limitandoci a quelle francese, inglese e italiana), nessuna delle quali soddisfa fino in fondo i criteri di accuratezza e di completezza richiesti per un testo complesso e ricco di sfumature come Amae no kôzô di Takeo Doï. All’accuratezza terminologica, a partire dal titolo, dell’edizione francese, si contrappone la completezza della versione anglo/americana e conseguentemente della traduzione italiana che da questa è tratta.

Già ho provveduto ad avviare una lettura (o rilettura) comparata delle tre versioni, e mi avvio alla conclusione di questo mio scritto con qualche considerazione, che è solo l’inizio di un lavoro che, con passione, mi accingo a fare.

 

Il titolo francese apre a significati che in fondo mi accorgo di aver già còlto quando ho scritto di amae.

Riporto qui uno stralcio di un mio lavoro del 2008, quando, per la prima volta, parlo di amae.

Dopo aver introdotto, nel discorso che andavo facendo, Takeo Doï e il suo libro Scegliere la dipendenza, proseguo così:

 

In esso l’autore introduce il concetto di amae, sostantivo tratto dal verbo amaeru, che viene ripreso nel lavoro contenuto nel libro a cura di Molino [The Couch and the Tree: Dialogues in Psychoanalysis and Buddhism, a cura di Anthony Molino, Constable, London, 1999; Open Gate Press, Milano-Roma, 2001. Tr. It. Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano, 2001]. Tale concetto, intraducibile letteralmente non solo in italiano ma anche in inglese, esprime una modalità di relazionarsi agli altri che si collega alla dipendenza dai genitori e dalla madre in particolare, in un connubio di abbandono fiducioso e di dipendenza vera e propria che mette il soggetto nella condizione di relazionarsi al mondo passando attraverso la (le) persona (e) con cui si stabilisce, anche nella vita adulta, un rapporto di amaeru, cioè fondato su amae. Al di là del fatto che amaeru esprime un’idea di relazione che in occidente viene scoraggiata nel processo di crescita del soggetto, mentre in Giappone è non solo tollerata ma addirittura favorita (e devo dire che, per quel che mi è dato di capire da occidentale, ritengo che la gran parte del disagio giovanile dei nostri tempi qui da noi sia dato dalla mancanza di amae che caratterizza la nostra società, con il mito dell’individualità e dell’indipendenza), la proposta di Takeo Doï, oltre a stabilire un legame profondo tra il buddismo zen e la psicoanalisi (lui stesso, nel lavoro contenuto nel libro a cura di Molino, stabilisce un rapporto tra amaeru e la differenziazione che fa Balint fra oggetto d’amore attivo e passivo), si colloca in una prospettiva non solo facente riferimento alla relazione d’oggetto, ma anche interpersonale e intersoggettiva, nella tradizione di Sullivan e di Fromm. A proposito di quest’ultimo, di cui nel libro a cura di Molino è riportato un ampio stralcio del testo contenuto in Psicoanalisi e buddismo zen, mi piace far rilevare che è rintracciabile, a mio avviso, un ulteriore collegamento fra l’idea di amae proposta da Doi e quella di madre biofila (v. Fromm E., 1964 e 1973) proposta da Fromm. La madre biofila sarebbe, in questa mia chiave di lettura, quella che pratica l’amaeru, mantenendo con il figlio un legame rassicurante ma non captativo che lo mette nella condizione di rapportarsi al mondo in modo sufficientemente fiducioso. Doi mostra anche i pericoli degli eccessi di amae, ma complessivamente ritengo ne veda soprattutto gli aspetti positivi per lo svilupparsi, per un soggetto, del suo modo di relazionarsi con il mondo. E ciò, comunque la si pensi nel merito, in una visione che non può essere collocata che nell’ambito della psicoanalisi interpersonale.

Carnevali R., “C’è qualcosa di nuovo... anzi d’antico”, in Setting N. 26/2008, FrancoAngeli, Milano.

 

Posso ritenere che andando a fondo nella lettura del libro, anche col titolo Anatomia della dipendenza, gli aspetti fondamentali di amae possano essere còlti, ma sicuramente il titolo Le jeu de l’indulgence, e piccole variazioni nel testo legate alla prospettiva a cui questo titolo apre, favoriscono a mio avviso la possibilità, anche nel lettore meno attento, di cogliere l’essenza del pensiero di Doï e delle sue concettualizzazioni.

Come ho detto, il mio lavoro è solo all’inizio, e non posso fare a meno di considerare presupposto imprescindibile, per approfondire il pensiero di Takeo Doï intorno ad amae nelle sua sfumature, un attento confronto fra le tre traduzioni, quella anglo/americana, quella francese mancante del capitolo aggiunto ma, unica, con un “Avvertimento da parte dell’autore”, e quella italiana, tradotta dall’inglese/americano e non direttamente dal giapponese ma contenente, come quella, il sesto capitolo chiarificante sul concetto di amae, aggiunto dall’autore qualche anno dopo la prima edizione.

 

Cito come esempio un passo nelle tre traduzioni, e alcune mie considerazioni sulla terminologia usata:

 

The man who “eats”, “drinks” or “licks” othrs seems active and confident on the surface, but inside he is alone and helpless. He has not really trascended amae; rather, he behaves as he does in order to cover uo a lack of amae.

 

L’uomo che “mangia”, “beve” o “lecca” gli altri sembra attivo e fiducioso in superficie, ma nel suo intimo è solo e indifeso: ben lungi dall’aver superato il proprio amae, si comporta in modo da dissimularne la mancanza.

 

Ils s’appliquent à des individus dont on peut dire que, sous la surface de leur assurance et de leur auto-suffisance, se cache une solitude impuissante. Ils n’ont pas vraiment surmonté leur amae, ou plutôt ils s’efforcent d’en dissimuler les lacunes.

 

L’ordine delle citazioni è voluto. Mi preme infatti evidenziare che mentre c’è piena corrispondenza fra il testo in inglese e quello in italiano, nel testo francese la frase che precede il riferimento ad amae è completamente diversa, e per di più si riferisce ad “individui” al plurale e non a “un uomo che…”. Leggendo l’intera pagina il senso del discorso è sostanzialmente analogo, ma nella traduzione inglese, e di conseguenza in quella italiana, i periodi sono spostati in una sequenza che non corrisponde a quella del testo in francese, che, non dimentichiamolo, è stato elogiato dall’autore per la propria correttezza. Probabilmente in quel discorso il francese si prestava più dell’inglese a una traduzione dove le sequenze di frasi del testo giapponese potevano essere rispettate. Ma rimane comunque abbastanza sconcertante vedere fra i due testi tradotti delle differenze così rilevanti.

Voglio peraltro soffermarmi sulla frase che in tutt’e tre le traduzioni compare in forma analoga:

 

He has not really trascended amae; rather, he behaves as he does in order to cover up a lack of amae.

 

ben lungi dall’aver superato il proprio amae, si comporta in modo da dissimularne la mancanza.


Ils n’ont pas vraiment surmonté leur amae, ou plutôt ils s’efforcent d’en dissimuler les lacunes.

 

Sorvolando sul soggetto plurale nel francese e singolare nell’inglese e nell’italiano, dovuti al soggetto della frase precedente, voglio rivolgere l’attenzione in modo particolare a due espressioni contenute nel periodo.

La prima: “not really trascended amae”; “[non] aver superato il proprio amae”; “[n’avoir] pas vraiment surmonté leur amae”.

Non so quale sia la parola giapponese tradotta in inglese con “trascended”, in italiano con “superato” e in francese con “surmonté”, ma ritengo che la traduzione più calzante di questo termine, pensando alla dimensione in cui amae è collocato, sia quella inglese, che, curiosamente, in italiano è tradotta con “superato”, che è molto più vicino al “surmonté” francese che al “trascended” inglese. Fra “trascendere” e “superare” c’è una differenza profonda, e l’idea di amae come qualcosa che vada “superato” mi sembra in contraddizione con tutto quello che viene detto prima e dopo questa frase e col significato profondo di amae. Volendo andare a fondo sull’idea di “trascendere amae”, possiamo trovare qualche indicazione che ci avvicina al possibile significato nel dizionario De Mauro:

 

trascendere

tra|scén|de|re, tra|scèn|de|re; v.tr. e intr. av. 1294; dal lat. transcĕndĕre “oltrepassare”, comp. di trans- “oltre” e scandĕre “salire”.

1. v. tr.: superare, oltrepassare, sia in senso positivo, sia negativo: il suo comportamento trascende ogni immaginazione, quello che scoprirono trascendeva le loro più rosee speranze

2. v. tr. filos.: esistere al di fuori e al di sopra della realtà sensibile

3. v.tr.: attraversare salendo: ora ammiro | com’io trascenda questi corpi levi (Dante)

4. v. intr.: (essere o avere) dimostrare la propria irritazione, dare in escandescenze: quando gli parli cerca di non trascendere, non trascendere alle mani, sono trascesi dalla discussione agli insulti

 

Tra questi significati mi sembra che quelli più sensatamente collegabili ad amae siano l’1 (in senso positivo) e il 3: un “oltrepassare che attraversa”. A mio avviso la frase vuol significare che “l’uomo che cerca di mostrarsi attivo e fiducioso in superficie non ha preso coscienza del suo amae e si sforza di dissimularne le lacune.”

 

Vorrei ora mettere in evidenza come nella seconda frase, relativa alla dissimulazione di “mancanza” o “lacune”, solo il testo francese esprime un’idea in sintonia col pensiero di Takeo Doï. Amae, inteso come “bisogno d’amore passivo” è qualcosa di presente in tutte le relazioni umane, e presiede a queste in varie forme; possiamo viverlo ed esserne consapevoli, e “giocarlo” nelle relazioni con l’indulgenza che è una delle sue caratteristiche principali, oppure assumere un atteggiamento che simula attività (contrapposta all’amore passivo di cui abbiamo tutti bisogno) e fiducia in sé stessi (contrapposta alla possibilità di muoversi nel mondo in modo fiducioso nei confronti degli altri) allo scopo di dissimulare le lacune presenti in noi nel relazionarci agli altri, che si traducono in un attacco preventivo che ci consente di mantenerci in una posizione di difesa dai nostri sentimenti. Il discorso è complesso e può essere ulteriormente ampliato. Mi sembra però fuorviante pensare a un “superamento” di amae e a un “dissimularne l’assenza”. Amae è comunque presente in tutti noi, e possiamo capirlo e viverlo profondamente “giocandolo” nelle relazioni, oppure “dissimularlo” raccontando a noi e agli altri che “non abbiamo bisogno di nessuno e possiamo badare a noi stessi”, fingendo di aver “superato” il bisogno d’amore che è invece costitutivo dell’essere umano.

 

E qui veniamo al titolo della traduzione francese dell’opera, e al mio tentativo di offrirne una traduzione italiana plausibile.

Il ruolo dell’indulgenza nelle relazioni è lontano mille miglia da Anatomia della dipendenza, ma ritengo che sia il titolo che meglio può rendere il pensiero di Takeo Doï relativamente ad amae. Accade che in francese ci siano delle espressioni che sintetizzano un’idea che in un’altra lingua richiede molte più parole. Ne è un esempio il secondo libro della Récherce di Proust, che in francese si intitola “De coté de chez Swann” e che nelle due traduzioni italiane più diffuse, quella di Natalia Ginzburg e quella di Giovanni Raboni (peraltro entrambe ottime), è stato reso con “La strada di Swann” (Ginzburg) e “Dalla parte di Swann” (Raboni). I due titoli, diversi ed entrambi rispettosi della lunghezza del titolo originale, non riescono a rendere il senso del titolo francese. Proust descrive la situazione che si verificava quando usciva dal cancello della casa di Combray; si poteva andare a destra o a sinistra, e una delle due direzioni veniva denominata “le coté de chez Swann”, e cioè il lato, la direzione, che conduce a dove abita Swann. Questo volume descrive quello che accadeva quando lui, uscendo dal cancello, imboccava la strada che portava alla casa di Swann. Né “La strada di Swann” né “Dalla parte di Swann” riescono a rendere il senso di ciò che Proust racconta in quel volume, e penso abbia prevalso una logica editoriale che impone certe regole a determinare questi titoli così brevi e probabilmente anche efficaci, che però non rendono il senso del contenuto.

 

Il verbo jouer, di cui jeu è il sostantivo, ha, come l’inglese to play, un significato più esteso rispetto all’italiano giocare. Ad esempio viene utilizzato per indicare il suonare uno strumento musicale, e l’interpretare una parte, o un ruolo, in una rappresentazione teatrale. Anche rispetto alle relazioni umane ha un significato che abbraccia vari aspetti che l’italiano rende in modo diverso, a volte utilizzando più parole. In queste poche frasi, cercando di rendere l’idea dell’ampiezza della parola jeu in francese, ho usato altre parole che appartengono anche al linguaggio psicologico e psicoanalitico: “interpretare”, “ruolo”, “rappresentazione”…

Come ho detto, sto iniziando un cammino di riscoperta e rivisitazione che mi stimola e avrà sicuramente nuovi sviluppi. Un primo passo fondamentale è stato ed è cogliere la ricchezza del discorso che si muove a partire da amae, e la lettura del testo in francese apre a nuove prospettive. Quello che mi preme sottolineare in questo momento è che “giocare l’indulgenza nelle relazioni” è un elemento che fonda l’essere umano, che è bisognoso di amore passivo e che può dare amore attivamente, essendo l’indulgenza una qualità che può essere vissuta sia attivamente, praticandola, sia passivamente, accettandola da parte di chi la pratica verso di noi, sia riflessivamente, “indulgendo” nei confronti di noi stessi, concedendoci forme espressive che potrebbero essere passibili di critiche o di riprovazione. Il gioco dell’indulgenza è un gioco complesso e declinabile in varie forme, collegate all’amore, alla dipendenza e alla reciprocità dei rapporti umani, e apre a un percorso stimolante di ricerca proteso alla conoscenza di sé stessi e del mondo che ci circonda, composto, prima di tutto, da altre persone con cui interagire e confrontarsi. “E questo – come direbbe Takeo Doï – è nient’altro che amae”.


[1] V. Carnevali R. – “C’è qualcosa di nuovo... anzi d’antico”, in Setting N. 26/2008, FrancoAngeli, Milano, – “Amae e il buddismo in occidente”, in Molino A, Carnevali R., (a cura di), Tra sogni del Budda e risvegli di Freud - Esplorazioni in Psicoanalisi e Buddismo, ARPANet, Milano, 2010, – “Amae nel binomio necrofilia-biofilia. Un parallelismo tra il pensiero di Takeo Doi e quello di Erich Fromm”, in Pratica Psicoterapeutica N. 7, Mimesis, Milano, 2012, – “Amae nella clinica”, in Pratica Psicoterapeutica N. 8, Mimesis, Milano, 2013, – “Amae and Western Buddhism”, in Molino A, Carnevali R., Giannandrea A. (a cura di), Crossroads in Psychoanalysis, Buddhism and Mindfulness - The Word and the Breath, Jason Aronson, Lanham, 2014, – Scegliere la dipendenza - Compendio di psicologia sociale e dei gruppi per psicoterapeuti, Arpanet, Milano 2014, – “Psicoanalisi e Buddhismo”, in Psicologia della personalità – Prospettive teoriche, strumenti e contesti applicativi, Terza edizione, a cura di Marina Giampietro, Paola Iannello, Charles S. Carver e Michael F. Scheler, Pearson, Milano, 2023.

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