Dopo che la post-modernità, a partire dell’ultimo decennio del Novecento, ha celebrato i fasti di quella che sembrava destinata ad essere una lunga fase della storia culturale dell’Occidente, da qualche anno si registrano ormai segni inequivocabile del suo declino, cui fa seguito una nuova, anche se, come vedremo, non del tutto inedita fase storico-culturale. Ciò che ha significato, anche sul piano dell’immaginario collettivo, la post-modernità è ben noto. Da Lyotard a Bauman uno dei caratteri costitutivi della post-modernità è stato individuato principalmente, al di là dei profondi cambiamenti economici e geopolitici, nel tramonto delle grandi narrazioni ideologico-culturali, che hanno animato i processi identitari e i conflitti politico-sociali del Novecento. In primis il crollo del marxismo come filosofia politica e come possibile modello di alternativa emancipativa alla organizzazione capitalistica della società. Ma, al di là del piano storico-politico, era l’idea stessa di “soggetto”, non solo politico ma anche filosofico ed esistenziale, a tracollare. La modernità, a partire dall’ Illuminismo e dalle rivoluzioni borghesi dell’Ottocento, basava la propria forza di richiamo identitario proprio sull’ idea di soggetto come cardine concettuale e valoriale capace di dare senso e prospettiva alle vite individuali.
La post-modernità andava oltre la modernità e alla solidità, rigida ma contenitiva, e alla cultura del soggetto umano sostituiva una “liquidità”, che relativizzava qualsiasi valore di riferimento e qualsiasi prospettiva di realizzazione dell’individuo e del Sé sociale. A partire però dal secondo decennio del nuovo secolo segnali di ri-solidificazione hanno cominciato a manifestarsi per poi divenire sempre più vistosi e pervasivi. Se da un lato i processi di disgregazione sociale e di regressione della soggettività hanno proceduto, soprattutto grazie al trionfo dei nuovi mezze tecnologici di comunicazione e relazione, in maniera sempre più travolgente e inarrestabile, dall’altro lato sono nate nuove forme di ideologia dei valori, capaci di influenzare potentemente e riorganizzare la vita sociale e la condizione esistenziali dei soggetti umani. Mi riferisco in particolare a due fenomeni specifici, l’uno inerente il piano politico-ideologico, l’altro il piano del costume e della concezione dell’uomo. A partire, in particolare, dalla guerra in Ucraina, il confronto politico, soprattutto in Italia ma anche in molti Paesi europei, si è di nuovo, come e più che in passato, polarizzato in un modo dualisticamente oppositivo, che prevede solo due posizioni possibili, l’una “giusta” l’altra “sbagliata”, l’una “buona” l’altra “cattiva”, o di qui o di là. Tertium non datur, anzi qualsiasi tentativo di dialettizzare il confronto oppositivo e di individuare un possibile spazio “terzo” di riflessione veniva e viene denunciato come riprova che chi lo propone rivela, per ciò stesso, di stare dall’altra parte, quella del “nemico”. Scattava così, e scatta tuttora, quello che è stato definito il meccanismo della “reductio ad hitlerum”, cioè del ricondurre qualsiasi posizione antagonistica e dialettica, rispetto a quella socialmente dominante, ad un implicito pensiero totalitario e antidemocratico.
Come psicoanalisti non possiamo non cogliere in tale forma di processazione e di categorizzazione mentale l’implicito e inconscio richiamo ad un funzionamento della mente di tipo schizo-paranoide. Tale funzione rappresenta, nel noto modello kleiniano, una “posizione” fisiologica e funzionale allo sviluppo della mente infantile. Per il bambino piccolo non ci sono che due diversi oggetti possibili, la madre buona (presente e accudente) e la madre cattiva (assente e frustrante). Nei confronti della prima non ci può essere che amore simbiotico e fusionale, nei confronti della seconda odio e demonizzazione. Quando il bambino supera, se riesce a farlo, la posizione schizo-paranoide acquisendo consapevolezza che esiste un unico oggetto materno e che tale oggetto è dolorosamente e scandalosamente sia buono che cattivo, allora può accedere alla “posizione” depressiva, che èp evolutiva, ma che però comporta non solo un’esperienza difficile di ricategorizzazione cognitiva, ma anche un esperienza di dolore e disillusione. Si direbbe che l’attuale polarizzazione dicotomica degli schieramenti politico-culturali segnali una particolare difficoltà dell’attuale costume mentale ad accettare la posizione depressiva. In questo senso la fine della post-modernità sembra derivare anche dalla difficilmente sostenibile condizione di incertezza valoriale che la caratterizzava. Per quanto concerne invece il piano del costume e della concezione dell’uomo e della vita umana, indubbiamente decisiva è stata l’affermazione della cultura dei diritti individuali, che ha conosciuto una declinazione fortemente ideologizzata in quella che è stata definita la cultura del Politicamente Corretto e Woke. Anche in questo caso la contrapposizione è inderogabile: o vi si aderisce senza “se o ma” oppure significa che si è contro, contro il progresso e contro la sacralità dei diritti individuali, che solo l’individuo può, autonomamente e con arbitraria assertività, dichiarare e reclamare. Anche in questo caso la ricerca di una posizione “terza” e dialettica non è prevista e tanto meno riconosciuta come intellettualmente legittima. È una situazione che, in quanto clinici, ci riguarda direttamente. Tant’è che, nel nostro ambiente, sottrarci al richiamo perentorio del Politicamente Corretto risulta difficoltoso, perché può comportare, e di fatto comporta, stigmatizzazione e in alcuni casi una sorta di damnatio memoriae che tende ad escludere dai dibattiti istituzionali e dalla prospettiva di riconoscimento da parte della letteratura accademica e “scientifica.
Di qui da parte di molti, fatte salve lodevoli eccezioni, una reazione di grande cautela o reticenza, una sorta di regime della “doppia verità” oppure l’omologazione intellettuale. Di qui il silenziamento di sempre più spazi di possibile espressione di un libero pensiero per quanto politicamente “scorretto” e l’affermarsi di veri e propri tabù culturali che arrivano a reclamare una regolarizzazione della semantica in una vera e propria “neo-lingua” do Orwelliana memora e in una vera e propria giuridicizzazione delle opinioni e delle verbalizzazioni. Un solo esempio significativo è rappresentato dalla straordinaria estensione semantica del concetto di “omofobia”, in cui curiosamente viene coniugata una categoria della psicopatologia (fobia) con una categorizzazione di ordine sostanzialmente o potenzialmente giudiziaria (reato), che ripropone appunto una forma di “giuridicizzazione della sessualità” (T. Gazzolo). In epoca vittoriana l’omosessualità era patologizzata come espressione di anormalità ed era anche, non dimentichiamolo, penalmente perseguita. La liberalizzazione e la normalizzazione della omosessualità nell’epoca contemporanea ha rappresentato non solo una conquista di libertà ma anche un ribaltamento dei valori vittoriani e puritani. E tuttavia, sorprendentemente, è ricomparsa, ad esempio proprio nel concetto di “omofobia”, una forma di patologizzazione delle opinioni in materia di omosessualità, laddove una lettura non semplicemente normalizzante dell’orientamento omosessuale, lettura ovviamente legittimamente contestabile, viene però non solo contestata ma interpretata come una manifestazione di patologia. Constatare una tale posizione socio-culturale (assolutamente inedita a meno di pensare a situazioni di regime che il Novecento ha ben conosciuto, naturalmente in forme violente e quindi incomparabili di penalizzazione del dissenso) ha indotto alcuni a parlare di “neo-puritanesimo” (N. Heinich) o di “neo-vittorianesimo” (S. Giacobbi). Credo che sia legittimo parlare in questi termini, naturalmente con le debite distinzioni innanzitutto sul piano dei contenuti ideativi e valoriali. L’età vittoriana fu epoca di censure e di repressione sessuale, dove l’epoca attuale è invece caratterizzata da depatologizzazione e liberazione dei costumi sessuali.
Una differenza fondamentale, che però sfuma laddove alla sacrosanta liberazione dei costumi si accompagna un intervento normativo e ideologico che tende ad imporre una nuova ortodossia refrattaria a posizioni non omologate. Qual è la ricaduta sul piano delle nostre vite professionali? Intanto la produzione teorica, certamente quella della psicologia clinica ma anche della stessa psicoanalisi ne risulta impoverita, ma la stessa pratica clinica ne risente, ad esempio con il fenomeno, che tra clinici viene comunemente rilevato, di una marginalizzazione, timorosa e prudenziale, dei temi sessuali un tempo così rilevanti specie nella clinica psicoanalitica e oggi quasi latitanti (S. Maschietto). È chiaro che qui si pone un problema e non solo di natura teorico-culturale ma anche inerente alla professione terapeutica. Pensiamoci e cerchiamo di rianimare un libero dibattito teorico e clinico.
BIBLIOGRAFIA
Byung Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano, 2014.
Gazzolo T., La giuridicizzazione del sesso, Rosemberg e Sellier, Torino, 2023.
Heinich N., Quello che la militanza fa alla ricerca, Mimesis, Sesto S. G. (MI), 2023.
Giacobbi S., “Diritto, diritti, omofobia”, Pratica Psicoterapeutica, Il mestiere dell’analista N.32 (1-2025).
Maschietto S. (a cura di), La sessualità nella psicoanalisi contemporanea. Aspetti teorici e clinici, Nuovi Orizzonti di Inconscio e Società/47, Roma, 2024.