Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 32
1 - 2025 mese di Giugno
FORUM IFPS – BERGAMO 23–26/10/2024
CON MEMORIA E CON DESIDERIO
di Mario Macchitella

Le parole Scissione e Dissociazione appaiono prevalentemente relegate all’area semantica della psicopatologia e, comunque, tra i meccanismi di difesa del paziente considerati meno evoluti. La Scissione è intesa – nei termini di Gabbard – come una “compartimentalizzazione delle esperienze” legata alla “incompatibilità di due aspetti polarizzati”, cioè, più banalmente, alla difficoltà nel considerare contemporaneamente gli aspetti buoni e cattivi di un Oggetto significativo – costrutto che ha avuto successo, ad esempio, nei modelli di Kernberg e allievi, a loro volta derivati dalla scuola delle Relazioni Oggettuali. La Dissociazione è, invece, sempre con Gabbard, una “distruzione del proprio senso di continuità [...] al fine di mantenere l’illusione di un controllo”.

Oggi si parla più facilmente di Dissociazione che non di Scissione, probabilmente sia a seguito della riscoperta culturale di autori come Janet e Ferenczi messi in qualche modo da parte negli anni del post-freudianesimo più intransigente, sia grazie alla congruità del costrutto con alcune scoperte neuroscientifiche, ad esempio sul funzionamento emisferiale, sia, ancora, per l’affermarsi di teorie come quella dell’Attaccamento (o dei Modelli Operativi Interni, dei Sistemi Emotivi ecc.) integrate nella psicoanalisi relazionale contemporanea o presso certe avanguardie “dialoganti” in ambito cognitivo-comportamentale.

Ciò di cui invece si parla meno è di come questi fenomeni siano presenti e giochino un ruolo all’interno del terapeuta come persona e all’interno della coppia analitica, nei meccanismi controtransferali, negli enactment, negli acting out e acting in inscenati dalla diade.

Sarebbe complesso approfondire le ragioni di questa sorta di scotomizzazione, che risale probabilmente a una certa interpretazione “più realista del re” del magistero freudiano e delle successive strutturazioni della teoria della tecnica. Ciò che importante in questa sede è piuttosto ricordare che scorrendo autori come Bromberg (in primis), Ogden, Mitchell, ma anche il classico Searles o, in Italia, Nicolò Terminio e altri ci si imbatte in un dato di realtà che non di rado viene ignorato: ovvero, lo psicoanalista è una persona come tutte le altre e se tutti – non solo i pazienti ‘gravi’ – scindono e dissociano, anche lo psicoanalista scinde e dissocia. E, per di più, scinde e dissocia persino nell’esercizio della propria disciplina, o scienza o arte che sia.

Naturalmente è superfluo rimarcare che, se pure esiste un continuum tra normalità e patologia, non si può pensare a uno psicoanalista dal funzionamento pesantemente scisso o dissociato: l’analisi personale e il training devono aver inciso e aver contribuito a trasformarlo – adattando una metafora di Nicolò Terminio – non tanto in un difficilmente raggiungibile faro nel mare in tempesta, quanto una fiaccola in grado di illuminare il cammino stando accanto e condividendo almeno parte dei rischi del percorso.

Uno psicoanalista, nel momento in cui approccia un paziente dal funzionamento scisso o dissociato, dovrebbe aver preso una visione “sufficientemente buona” delle proprie aree di discontinuità, dovrebbe aver rinunciato, con Bromberg, a pretendere vera quella che è una utile illusione di monoliticità del proprio Sé, dovrebbe avere contezza che uno stato del Sé momentaneo, magari innescato controtransferalmente da un certo paziente in una certa seduta, è appunto uno stato momentaneo, che non dà adito all’oblio degli altri, non è più autentico né esaustivo o totalizzante degli altri e nemmeno urla soddisfazione da solo come una vox clamans in deserto.

Oggi è forse proprio questa consapevolezza la prima condizione preliminare per mantenere la necessaria asimmetria della relazione terapeutica.

Quante volte invece abbiamo sentito colleghi validissimi (o magari noi stessi), iniziare a presentare una vignetta clinica ripetendo sovrappensiero e senza che vi sia alcuna particolare indicazione o attesa in questo senso, che il/la proprio/a paziente, ancorché grave, è però “molto intelligente”, “davvero intelligente”, “intelligentissimo/a”? Questa voce benignamente dissociata (che ricorda un po’ quella di molti genitori quando parlano dei propri figli agli amici) potrebbe ad esempio rappresentare un riflesso ingenuo del narcisismo scisso del terapeuta (io sono intelligentissimo --> questo caso mi appassiona tanto che ci ragiono, lo scrivo, lo offro in dono alla comunità dei colleghi (anche) per ricevere tutta la loro ammirazione --> ergo, il paziente in grado di scatenare in me tanto interesse e richiedermi tale investimento deve essere per forza non meno che intelligente); oppure lo smarrimento di fronte a ciò che è portato a ritenere un enigma indecifrabile, una sfinge muta e beffarda, una sfida forse superiore alle sue forze che lo smaschererà, e che, per formazione reattiva, magari segretamente odia, torturato da un Super-Io inflessibile e perfezionista di fronte al quale non sono ammesse fragilità e tentennamenti.

È dunque chiaro che la possibile perdita di contatto da parte del terapeuta con l’ineludibile voce scissa ‘di bordone’ toglie qualcosa alla lucidità delle sue valutazioni cliniche e, dunque, alla sua efficacia terapeutica.

Due esempi sull’umanità (e quindi sulla sana imperfezione) dell’analista, arrivano da Searles e Gabbard. Searles:

 

quale analista, osservando a fondo il proprio carattere e quello dei colleghi che conosce personalmente, riuscirebbe a trovare un professionista del tutto privo di tratti quali le tendenze autoritarie, l’invidia, la vanità? Questi aspetti, ritenuti ignobili o non graditi, durante la nostra analisi personale non perdono di importanza e neppure scompaiono, e non è parimenti neppure auspicabile che questo succeda. Ciò che accade è che, man mano che procediamo verso una maggiore consapevolezza, queste tendenze stabiliscono un rapporto più equilibrato con altri aspetti del nostro repertorio emotivo. L’analisi, infatti, non fa diminuire la gamma delle nostre emozioni, ma permette loro di raggiungere una miglior armonia, un miglior equilibrio, di modo che nessun aspetto prevalga sugli altri.

 

E Gabbard, asciutto ma incisivo come al solito:

 

Ogni volta che un paziente viene presentato da un collega come una “persona speciale” il terapeuta deve stare in guardia. Una simile descrizione spesso riflette un’idealizzazione controtransferale, risultato di un’identificazione con la figura di un genitore totalmente amorevole o totalmente protettivo che il paziente ha proiettato nel terapeuta. Parte di questa costellazione transferale-controtransferale rappresenta l’accordo inconscio di tener al di fuori della diade tutti i sentimenti aggressivi e negativi.

 

Infine, Bromberg riporta un caso in cui la Scissione può annoverare, tra i propri scalpi di terapeuta, quello più prestigioso di tutti: Freud in persona. Sul caso di Emmy, infatti, Bromberg, citando testualmente il fondatore dalla psicoanalisi, ha scritto che:

 

essa era, in effetti, elogiata da Freud come un modello di virtuosa abnegazione, la perfetta vedova vittoriana encomiata per ‘la serietà morale nella concezione dei propri doveri, per intelligenza ed energia addirittura mascoline, per l’elevata cultura e amore della verità’ [...]. C’è poco da meravigliarsi del fatto che il veicolo più drammatico di espressione di sé con Freud fosse la sua ‘patologia’. Si può in effetti ragionevolmente argomentare che i problemi di Freud erano aggravati dalla sua forte idealizzazione di Emmy – una idealizzazione che contribuì a un processo dissociativo nel suo pensiero in cui egli considerava i suoi sintomi come una patologia, e la donna in sé come moralmente irreprensibile. La ragione imperativa dell’idealizzazione di Freud, ipotizzerei, era quella di precludere ogni possibilità di vedere Emmy, in maniera simile a Janet, come una ‘degenerata’; si potrebbe anche ipotizzare che alcuni aspetti del bisogno di Freud di metterla su un piedistallo fossero un tentativo inconscio di proteggere se stesso da quel tipo di problema che Breuer aveva avuto con Anna O.

 

Quando si trova con un paziente l’attenzione del terapeuta fluttua liberamente, associa (il che vuol dire che parte da materiale grezzo che è per sua natura disarticolato), reagisce controtransferalmente e su questa cosa riflette, decide se concedere lampi di self disclosure oppure no, e perché e quando, può abbandonarsi a delle rêverie, cadere nelle identificazioni proiettive del paziente, lasciarsi usare da lui e poi riprendersi, inquinare il setting con un suo agito impulsivo e poi tentare di bonificarlo e così via, uno stato dissociato dopo l’altro. In queste occasioni la mente del terapeuta non è una landa sterminata e ininterrotta (pena un ritiro dal sapore schizoide), ma nemmeno un’isola lambita dall’oceano da ogni lato, già percorsa mille volte palmo per palmo (come nelle fantasie narcisistiche di assoluta indipendenza dall’Oggetto oppure nelle ossessioni di totale controllo e disciplina, quasi di ritenzione anale onnipotente): è piuttosto un arcipelago, con i suoi tanti Sé dissociati che non hanno tutti la stessa importanza, alcuni sono solo un piccolo scoglio, altri sono brutti, altri anonimi ma utili e pieni di risorse, assolati o ombrosi, vulcanici o paludosi, abitati o disabitati ecc.

La grande differenza tra il paziente e il terapeuta è che il terapeuta sa di essere un arcipelago (l’asimmetria di cui sopra), sa navigare tra una sua parte e l’altra, non ha timore a farlo e sa quando è più opportuno farlo, è ragionevolmente certo che non esistono mostri marini o che possono essere placati da una distanza sicura.

Il terapeuta ha un sogno da sognare: costruire insieme al paziente un terreno di gioco, che del gioco (winnicottiano) abbia innanzitutto la serietà delle regole – regole co-create e con-divise, non calate da uno spazio iperuranio –, nel quale possano ricordare insieme (e quasi ripetere e rielaborare...), anche l’uno dell’altro e ciascuno di se stesso, e desiderare insieme, anche l’uno per l’altro e ciascuno per se stesso, che ci sia un posto per ognuno dei loro Sé dissociati sia nella relazione con l’altro sia quando sono soli con se stessi.

Dissociandosi all’ombra dell’Oggetto-Ogden, si potrebbe dire che “la nostra meta è cercare di sfuggire alle cadute dell’ideologia e di imparare dai nostri goffi sforzi a pensare nel contesto di differenti sistemi di idee che nell’insieme, in un modo scarsamente integrato, costituiscono la psicoanalisi”.

 

In un suo lavoro classico nei toni pacati, ma assai trasgressivo nei contenuti, Searles riparte da Freud per ricordare che la traslazione è costituita da:

 

riedizioni, copie degli impulsi e delle fantasie che devono essere risvegliati e resi coscienti durante il progresso dell’analisi, in cui però – e questo è il loro carattere peculiare – a una persona della storia precedente viene sostituita la persona del medico. In altri termini, un gran numero di esperienze psichiche precedenti riprendono vita, non però come stato passato, ma come relazione attuale con la persona del medico [...]

 

e poi, spostandosi da Freud a Silverberg che il transfert:

 

è il tentativo di imparare, con una serie di prove, come non essere indifesi e impotenti in una situazione che originariamente ci trovò così […]. Ogni transfert indica un bisogno di esercitare un completo controllo sulle circostanze esterne.

 

L’oggetto del contendere, ancora oggi, è l’eco dell’insanabile diatriba tra Freud e Janet, l’origine stessa della psicologia dinamica, non solo sul ruolo del medico nella mente del paziente, ma sulla centralità della Dissociazione (ovvero del trauma) rispetto alla Rimozione (ovvero del conflitto) nella nascente psicoanalisi.

Searles si apre, e non poco, con i lettori:

 

se parto dalla mia esperienza clinica, sono stato essenzialmente colpito da due aspetti dei fenomeni transferali: la loro idiosincratica natura proiettiva e il loro essere regolarmente stimolati dall’atteggiamento emotivo attuale dell’analista. Si tratterebbe quindi di fenomeni che implicano distorsioni solo quantitative e non qualitative.

 

In pratica il paziente, per quanto proietti su di noi qualcosa che ha a che fare col ritorno del suo rimosso e con la coazione a ripetere, si appiglia a nostri aspetti assolutamente reali, semmai esagerandoli e vedendo solo quelli, forcludendo sì ma non sparando alla cieca.

L’interesse di Freud, però, era centrato sugli aspetti e i fondamenti intrapsichici di questo movimento dinamico del paziente, mentre Searles si spinge a riconoscere come i pazienti

 

siano in grado di ‘leggere l’inconscio’ del terapeuta. Questo processo di lettura dell’inconscio dell’altro dopo tutto è fondato semplicemente sull’attenzione a ogni minima variazione nella postura, nell’espressione facciale, nel tono di voce e via dicendo, di cui l’altra persona è il più delle volte inconsapevole.

 

Non si parla ancora di dissociazione del terapeuta, semmai di aspetti incontrollabili fuggiti dal seno del non verbale, ma il rischio è quello di sentirsi sul tavolo anatomico destinati ad essere dissezionati da quel mostro chiamato paziente, altro che asimmetria. Nulla di tutto questo per Searles, per il quale l’obiettivo del terapeuta dovrebbe essere quello di restare attento ai suoi stessi mutevoli sentimenti, che sono in ogni caso comunicati attraverso il comportamento. Il paziente, poi, tenderà a porsi in relazione con uno dei nostri Sé perché è con quel tipo di Sé che gli Oggetti principali si sono relazionati a lui, non imponendoglielo ma, peggio, trattandolo come se fosse già in quel Sé conchiuso, disconoscendo gli altri. La cura dunque, come meglio vedremo, passa anche attraverso il recupero e la liceizzazione di un sentimento creativo e decontratto della propria dissociazione, un sentimento che deve essere ispirato dalla persona del terapeuta e dalla qualità della relazione diadica.

Per rimanere alla poco prudente ma brillante intuizione di Searles (l’articolo che stiamo analizzando fu concepito nel 1949, significativamente rifiutato e pubblicato solo nel 1979!) il paziente: “manifesta un grande bisogno di scoprire di saper suscitare nell’analista tutta la vasta gamma di possibili risposte emotive”.

Il paziente dovrebbe, secondo me, poter esperire nella relazione terapeutica una sorta di fase fallica poi opportunamente (dolcemente) castrata, specie se la sua problematica affonda nel pre-edipico come accade sempre più spesso, ma questo sano lutto dell’onnipotenza, l’incesto “quasi sfiorato” e in realtà molto lontano dall’essere consumato, non deve cancellare la ricchezza della molteplicità di interazioni che i suoi Sé elicitano nei Sé dell’analista.

In questo senso, persino un uso critico e adulto della self disclosure (e naturalmente del suo rifiuto) può aiutare. Ogden ci racconta che:

 

la domanda ‘che cosa le piacerebbe sapere?’ (posta da una terapeuta in supervisione a una paziente, ndr) rappresentava un’azione interpretativa che conduceva a una comprensione da parte della paziente del conflitto inconscio primario, in un modo tale da generare un cambiamento psicologico in cui la scena primaria (e il dramma edipico) poteva essere (ri)creata ed esplorata in sicurezza in un’area intermedia tra realtà e fantasia.

 

Come già detto, è decisivo il lavoro di tre autori nell’elaborare e supportare questa posizione: si tratta di Ogden, Mitchell e Bromberg.

Ogden ci porta in una dimensione, anche letteraria, in cui l’eco kleiniana ha le risonanze inquietanti che le sono proprie, aprendo tuttavia a una coesistenza di posizioni più tollerabile e creativa. Se da un lato “l’analista deve saper ascoltare attraverso il rombo della distruzione al suo margine, senza essere mai sicuro di dove si trovi questo margine” e

 

il soggetto lacaniano non è semplicemente decentrato, ma è radicalmente disconnesso da se stesso, lasciando una ‘mancanza’ o lacuna centrale che dipende dal fatto che il soggetto parlante e il soggetto dell’inconscio sono irrevocabilmente divisi dallo scarto incolmabile che separa il significante dal significato

 

dall’altro però, con Bion

 

in assenza della pressione disintegrativa del polo schizo-paranoide della dialettica che genera l’esperienza, l’integrazione associata alla posizione depressiva raggiungerebbe una posizione di chiusura, stagnazione e ‘arroganza’.

 

Ecco perché è Ogden (o meglio il sogno di un suo paziente che lui usa per approfondire il pensiero di Winnicott) che ci ha ispirato in precedenza la metafora dell’arcipelago dei Sé da riconoscere e sentire propri e tra i quali navigare con relativo agio e disinvoltura. L’analista non è, né ha motivo di essere, “meno arcipelago” del paziente. E non è affatto raro che la sua attenzione liberamente fluttuante si sposti spesso, spinta dalle identificazioni proiettive del paziente, in una rada lontana da quelle visibili dal paziente stesso, ad inseguire momentaneamente aspetti per lui (l’analista) narcisisticamente rilevanti. Anche se questo “viene spesso considerata come qualcosa che l’analista deve superare, mettere da parte, vincere e così via, sforzandosi di essere emotivamente presente e attento all’analizzando” in realtà “l’identificazione proiettiva offre al ricevente la possibilità di creare una nuova forma di esperienza che è altro-da-se-stesso, e quindi di creare le condizioni per il cambiamento di quello che è stato fino ad allora e che ha avuto l’esperienza di essere”. Noi, insomma, sembriamo essere qualcosa solo quando qualcuno ce la restituisce dopo essere stato da quel qualcosa in qualche modo attinto e segnato.

Come vedremo meglio poi in Bromberg, sono gli spazi, le membrane, i confini, le intercapedini ad interessarci anche più di quello che separano: se Anzieu con Freud ci ricordava come il bambino nell’atto di toccarsi si possa percepire sensorialmente some Soggetto e Oggetto di tale atto, Ogden insiste che

 

fisiologicamente, è essenziale che la propria pelle crei continuamente uno strato di tessuto morto che serva quale copertura esterna del corpo che preserva la vita. In questo modo (come nel concetto freudiano di ‘barriera antistimoli’) la vita umana è fisiologicamente incapsulata dalla morte” [...] (ma, ndr) “il tipo di isolamento che ho in mente non è una forma di morte psicologica [...] Ciò che sto cercando di descrivere è una sospensione della vita nel mondo dei vivi e la sostituzione di quel mondo con un mondo autonomo di ‘relazioni perfette’ dei sensi.

 

Nell’arcipelago dei Sé, insomma, paziente e terapeuta faranno spazio non solo per i propri lampi schizoparanoidei a ravvivare il plumbeo cielo depressivo, ma esperiranno che, come fanno i bambini nel gioire di quell’influenza che li tiene a casa da scuola, vi è una dimensione dissociata autistico-contigua, arcaica, primordiale, somatica, pre-simbolica e cinestetica, legata al bisogno e non al desiderio, non rimossa perché non legata al conflitto, dalla quale si può uscire solo quando ci si sa ritirare.

Con Mitchell si cambia inevitabilmente atmosfera, ma non si cambia rotta. Mentre si scaglia tra i fuochi di un’ellisse costituiti da speranza e paura, Mitchell fa suo Bion: “chiunque debba vedere un paziente domani dovrebbe, a un certo punto, provare paura”. Fa paura provare a mettere le mani su una vita in cui lo stesso terapeuta è una persona che non sa di essere. Ma il grado di dissociazione non può essere da solo il metro della psicopatologia, né la sua completa risoluzione l’obiettivo di una psicoterapia: “sembra sbagliato ritenere che l’assimilazione e l’unione delle molteplici versioni di sé siano preferibili alla capacità di contenere versioni mutevoli e conflittuali di sé”.

Il conflitto, punto di partenza per il paziente nevrotico freudiano (o almeno per il suo paziente ‘ideale’), sembra quasi il punto di arrivo per il paziente grave di Janet, se vogliamo adottare una posizione continuista, che avrebbe il pregio di essere compatibile con i quadri clinici sempre meno nevrotici e sempre più disturbati che si presentano ogni giorno in studi o ambulatori.

Nella diade, è chiaro che un relazionale come Mitchell metta bene a fuoco il tema dell’appagare o frustrare il paziente, ma ai fini della presente indagine, è più importante notare come tali argomenti lo inducano a recuperare alcune riflessioni di Ferenczi, che tentò dolorosamente e senza particolare successo di riportare la Dissociazione al centro del dibattito della società psicoanalitica freudiana. Ferenczi, com’è noto, si era fatto imbrigliare dal caso R.N. in un’impervia e spericolata analisi reciproca senza aver potuto condurre in porto la propria, senza poter praticamente ricorrere a supervisioni o al confronto con un’associazione di colleghi e aveva scisso il proprio furor curandi come un seno buono che sentiva però sempre più prosciugato e inaridito. Tuttavia, questa lunga sequela di passi falsi non priva oggi la sua figura di quel ruolo da pioniere nel mostrarci la Psicoanalisi come irripetibile inter-relazione e co-costruzione tra due esseri umani: Mitchell, con Winnicott, ci invita a stare lì col paziente, un paziente che forse inizierà a sperare proprio quando gli diremo che per lui potrebbe non esserci speranza, ma supera finalmente la metafora oleografica del guaritore ferito; anzi, ci spinge dentro i nostri studi consci di aspirare a realizzare anche dei bisogni nostri, anche, in un certo senso, usando i pazienti come loro usano noi. Dice, infatti, che “l’investimento del terapeuta nel proprio potere terapeutico probabilmente serve, in parte inevitabilmente, per aiutare lui stesso a guarire. Aiutare il paziente è un mezzo per regolare il suo senso di impotenza, e l’impotenza dei suoi oggetti interni proiettata sul paziente”.

Terminio, senza rinunciare al rigore, ci infonde molta serenità sul punto:

 

Sebbene un terapeuta possa aver compiuto un’analisi personale condotta fino alla fine, non potrà mai estinguere la sua dimensione inconscia, e per fortuna, altrimenti vorrebbe dire che il risultato ottimale di una cura psicoanalitica sarebbe quello di produrre un soggetto senza inconscio [...]: (qui Terminio citando Craparo, 2017, ndr) una buona analisi personale e un atteggiamento mentalizzante permettono all’analista di esporsi, giocando con la realtà psichica del paziente, senza esserne avvinghiato e travolto. Si tratta di camminare sul bordo dell’abisso tenendosi ben accorto a non cadervi dentro. [...] Bisogna quindi correre il rischio di lasciarsi ammalare (illusoriamente e temporaneamente) dal paziente per poter entrare in contatto con quelle impressioni emotive, rimaste a un livello sensoriale, a- e presimboliche.

 

In fin dei conti il terapeuta cerca di rendersi così indispensabile all’altro da portarlo a fare a meno di lui: un giorno, vicino o lontano che sia – come nel sogno di una paziente di Mitchell – l’illuminazione della luna si separerà dalla luna stessa ed è da questa dissociazione, solo apparentemente terribile e spaventosa, che essa prenderà vita provando finalmente a splendere di luce propria e non più meramente riflessa.

 

Che faccia fare al terapeuta un passo indietro, avanti o lo lasci fermo, spesso è comunque il paziente a fargli fare qualcosa: è l’enactment, il temuto meccanismo che non può però essere semplicemente respinto come un assedio ma va amato come parte del processo di cura e nel quale va preservata l’asimmetria terapeutica. Bromberg non ha alcun timore nell’affermare che “l’analista alcune volte sentirà questi sentimenti come se fossero del paziente, ma il più delle volte vi entrerà in contatto prima di tutto come sentimenti suoi”, non è spaventato dal fatto che un enactment “lo costringe a esperire gli aspetti dissociati del proprio senso di sé che conduce al riconoscimento degli aspetti dissociati del Sé del paziente”.

Persino Freud, come ci ricorda, era stato entro certi limiti indulgente verso certe debolezze dell’Io, di cui aveva teorizzato già prima di sua figlia Anna il ‘parenchima’ non del tutto conscio: “nell’Io e l’Es (1922) Freud ha affermato che, se le identificazioni dell’Io con l’oggetto diventano troppo numerose, soverchianti e tra loro incompatibili, si è prossimi a un risultato patologico. Si può giungere a una frantumazione dell’Io nel caso in cui le singole identificazioni si escludano a vicenda mediante resistenze”. Occorre sottolineare sia il “troppo numerose” (quindi entro un certo numero vanno bene) sia il fatto che le singole identificazioni non debbano escludersi a vicenda: ecco perché, continua Bromberg, “la salute non consiste nell’integrazione. La salute è la capacità di rimanere negli spazi tra realtà diverse senza perderne alcuna. Questo è quello che ritengo significhi accettazione del sé e quello che sia la creatività – la capacità di sentirsi uno in molti”. Come spesso accade, nei suoi testi Freud si mostra meno dogmatico di quanto l’ortodossia freudiana abbia tramandato: d’altra parte gioco, creatività e preverbalità o paraverbalità sembrano le nuove parole d’ordine in un’epoca in cui i pazienti appaiono sempre più dei Pinocchio bisognosi di essere bambini prima di ogni altra cosa (la similitudine è di Semerari) che non dei cavalli selvaggi il cui Es, per la buona tenuta del patto sociale, va addomesticato ricorrendo a bonifiche, scavi archeologici e avanzate militaresche dell’Io. Se da un lato l’argine della rimozione sembra non tenere più, dall’altro ciò che filtra e giunge alla nostra percezione è deformato, spettrale, come una musica atonale che ci priva di ogni riferimento noto o gradevole appiglio melodico.

Di fronte a tutto ciò, il terapeuta in alcuni momenti non potrà fare altro che ritirarsi e dissociare: ad esempio l’analista Goldberg, in un caso clinico riportato da Bromberg, sembra sfuggire in seduta a una paziente perché “era anche vagamente distratto dal rumore e dai bagliori della strada, e da un piccolo ragno che stava filando la sua tela contro un pannello di vetro”. Qui siamo ben oltre la rêverie bioniana, come ci spiega bene Gagliardi: è una sorta di

 

oscillazione difensiva tra dissociazione e/o ritiro e integrazione, che prevede e/o aiuta a formare una capacità di elasticità del setting interno. Attraverso questo particolare lavoro ci si astrae, mettendo in atto una ‘dissociazione’ funzionale alla cura, si entra nel mondo privato dell’immaginario soggettivo: immagini che l’analizzando suscita nel proprio mondo interno, ma che appartengono solo all’analista e a volte lontane da ciò che sta avvenendo nel qui e ora della seduta. Non mi riferisco, dunque, soltanto al lavoro di rêverie che nasce dalle associazioni del paziente o dalla trasformazione dei suoi contenuti mentali inconsci e delle sue protoemozioni, per come lo ha descritto Bion (1962); penso proprio ad un lavoro di ritiro dal qui e ora della seduta, che riguarda la soggettività dell’analista, il suo modo di essere ‘integrato’ e soggetto in presenza dell’altro, con la consapevolezza che l’altro ci sia, ma con la capacità di sostare nel suo intrapsichico, nelle sue memorie, nei suoi pensieri. Un movimento interno che si affianca alla rêverie, che invece riguarda la sintonia e le trasformazioni attraverso il sogno ad occhi aperti.

 

Dell’imprescindibile corpus freudiano la parte forse più vacillante e superata è quella sulla censura onirica, che, sostanzialmente, ci condurrebbe in un vicolo cieco epistemologico: il sogno è soprattutto, invece, un linguaggio dissociato come altri, che come altri utilizza prevalentemente dei significanti metaforici e non verbali. Allo stesso modo non possiamo snobbare le fantasie ad occhi aperti come semplice regressione masturbatoria non degna di rilievo analitico. L’analista deve connettersi a quei linguaggi attraverso il reclutamento attivo di tutta la sua flessibilità di fronte alla vita come materia pulsante, proprio quella flessibilità (e leggerezza, e ironia, e disincanto postmoderno...) di cui non dispone il paziente, proprio quella flessibilità senza la quale, ora è di nuovo Bromberg a parlare, “le altre persone sono semplicemente attori della rappresentazione mentale di una qualsiasi delle realtà che definiscono lo stato del Sé di quel momento.

Ormai è chiaro che la flessibilità analitica comprende, ma non esaurisce, la possibilità di accorgersi dei cambiamenti di stato del Sé (senza troppa cura per il mero contenuto verbale manifesto) di uno dei due membri della diade e la conseguente riflessione sul gestire o meno da solo tale ‘appercezione’. L’analista è:

 

riluttante a ‘intromettersi’ nel paziente in quel momento? Si sente protettivo verso il bisogno di sicurezza del paziente e la sua vulnerabilità alla traumatizzazione? Si sente spinto in due direzioni opposte, se parlare o meno? Si sente stranamente paralizzato dal non essere in grado di muoversi in entrambe le direzioni, come se in un qualche modo dovesse scegliere tra l’espressione di sé e la vulnerabilità del paziente? E in questo caso, è in grado di trovare un modo per utilizzare questa esperienza di sentirsi soffocato nella sua libertà? Potrebbe l’atto di condividere l’intera sequenza dei pensieri, insieme al momento che ha condotto a essi, essere una scelta utile in questo caso?

 

Lo psicoanalista ha sì una spaventosa libertà ma, al tempo stesso, ha una responsabilità verso la professione che è maggiore di quella verso il singolo paziente. Per quest’ultimo risulta decisivo incontrare sulla propria strada un analista quasi sfacciato nello sbagliare e nel farsi i fatti suoi, tecnicamente sporco nella sua tecnica in realtà raffinata, e dunque in grado di ‘rigenitorializzarlo’ attraverso un’esperienza autenticamente scomoda eppure rispettosa come nessun’altra. Afferma Bromberg:

 

È facile che un enactment possa aver inizio dall’analista. La dissociazione è un processo ipnoide, e poiché analista e paziente stanno condividendo un evento che appartiene a entrambi in ugual misura – il campo interpersonale che definisce sia la realtà immediata di ognuno sia il modo in cui ognuno sta facendo esperienza dell’altro –, ogni ritiro inaspettato dal campo da parte di uno dei due, interromperà lo stato della mente dell’altro [...]. Le parole iniziano ad assumere una qualità ‘irreale’ ed è spesso questo che ‘desta l’analista’ rispetto al fatto che ‘sta avvenendo’ qualcosa. Egli si trova dissociato da quella parte di sé che stava prendendo parte all’enactment ma, una volta riacquistato l’accesso a essa, non sarà più ‘addormentato’ rispetto al fatto che il paziente, sebbene stia utilizzando le parole, è ugualmente ‘addormentato’ rispetto all’esperienza del qui-e-ora tra loro. Uno stato del Sé dissociato del paziente contenente un’altra realtà – una realtà che talvolta si oppone in maniera accanita a quella di cui si sta ‘parlando’ – può allora iniziare ad acquisire una voce. La dissociazione dell’analista non è un ‘errore’; è intrinseca al normale processo della comunicazione umana, questo a meno che essa non diventi un autentico aspetto controtransferale che lo ostacola dallo ‘svegliarsi’, e questo a prescindere da quanto e in che modo sta gridando la voce dissociata per attirare l’attenzione. Si potrebbe anche ampliare il concetto di ‘uso dell’oggetto’ (Winnicott, 1969) e suggerire che l’analista è sempre ‘sordo’ verso il paziente e ‘in errore’ nelle sue interpretazioni, per lo meno rispetto ad alcuni aspetti dissociati del Sé del paziente; ma è questo che consente al paziente di ‘ri-creare’ l’analista come parte del processo di ricreazione del Sé che costituisce il nucleo della sua crescita. In altre parole, viene fornita al paziente una possibilità per far sì che aspetti non simbolizzati del Sé protestino per ‘l’erroneità’ dell’analista [...] e per far sì che queste altre voci possano essere conosciute dall’analista attraverso l’enactment.

 

Fantasia e percezione, proiezione e introiezione, in questo ritmo irregolare e libero che ha qualcosa dell’atto sessuale tra due persone che si vogliono bene, in cui c’è posto per il desiderio dell’altro ma anche per il proprio, andranno così lentamente a ricomporsi in una sorta di entropia calda, che non ha nulla a che vedere con quella fredda e mortifera in cui è forse destinato a languire l’universo alla fine del Tempo.

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