Questo lavoro rappresenta parte di una ricerca trattata più ampiamente nell’articolo Neuroses as Pathologies of Freedom: Determinism and Free Will in Freudian Theory, presentato al XXIII International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS) INTERNATIONAL FORUM e vincitore del premio Benedetti-Conci 2024.
Il rapporto tra la teoria freudiana e l’attuale dibattito filosofico e scientifico sulla libertà del volere è complesso. Freud, naturalizzando lo psichico e riconducendolo all’ambito delle scienze della natura (Naturwissenschaften), avrebbe collocato la vita psichica in un orizzonte esplicativo di tipo nomotetico, dove vige un rigoroso determinismo. In tale cornice, il soggetto avrebbe solo «l’illusione del libero arbitrio»,[1] trovandosi completamente determinato da forze e processi di cui ignorerebbe persino l’esistenza. Con ciò Freud avrebbe anticipato le moderne problematiche della neuroetica e le questioni della compatibilità epistemologica che una possibile teoria della libertà pone all’interno di una concezione scientifica della psicologia e dei processi neurali. Tuttavia, Freud non nega il libero arbitrio – come alcuni hanno sostenuto – bensì lo fonda e lo naturalizza, proponendo una soluzione degna di nota anche nel panorama filosofico e scientifico contemporaneo. Avanzando una posizione compatibilista scientificamente sostenibile e integrabile all’interno dei moderni paradigmi neuropsicologici, Freud elabora una teoria che fornisce non solo ulteriori elementi di approfondimento teorico sui concetti di libero arbitrio e di volontà, ma anche uno strumento di reale emancipazione del soggetto dalle nevrosi, perché sviluppa una teoria intimamente connessa alla pratica terapeutica.
Effettuare una riflessione metapsicologica sul libero arbitrio apre le porte a considerazioni di grande rilevanza teorica e clinica. In primo luogo, conduce a riconsiderare la coerenza tra le esigenze di riduzione e spiegazione computazionale tipiche delle scienze cognitive e la presenza di un’agency naturalisticamente fondata. In secondo luogo, data l’evidenza clinica di come tale libertà possa essere concretamente limitata e resa di fatto inattuabile per via delle problematiche psiconevrotiche, mostra come la psicoanalisi consenta di sostituire al soggetto astratto il soggetto reale, ovvero il soggetto che, pur potendo essere possibilmente libero, non è in grado di esercitare fattivamente tale libertà, come avviene in molti casi di coazione a ripetere. In terzo luogo, tali riflessioni mettono in risalto come la pratica psicoanalitica, correttamente intesa, si configuri come restituzione della possibilità della libera volontà non istruendo, potenziando o condizionando il soggetto, ma agendo in modo che egli possa integrare quello che risulta rimosso. In questo scenario, le nevrosi possono essere definite patologie della libertà e, come tali, sono da intendere come intimamente connesse, sia per la comprensione sia per il trattamento, alla riflessione morale.
In questo breve lavoro concentrerò l’attenzione soprattutto su alcuni aspetti più pratici e clinici, perché mi preme sottolineare quanto la libertà del volere, per diverse ragioni, sia il vero cuore pulsante della terapia freudiana, in quanto – come mostrerò – ne è sia il presupposto, sia il fine.
Tuttavia, prima di addentrarmi nella concezione freudiana della libertà del volere, è opportuno fare cenno ad alcuni rilevanti contributi che il punto di vista freudiano potrebbe portare al dibattito contemporaneo sul libero arbitrio.
Contro gli approcci rigidamente riduzionisti ed eliminati visti in campo neurofisiologico Freud concorderebbe con List, che ritiene possibile
difendere un’idea di libero arbitrio che è in gran parte sfuggita ai più, nonostante tutta l’attenzione ricevuta dall’argomento. Stando a essa, il libero arbitrio va inteso come un fenomeno di «livello superiore»: un fenomeno che non è collocabile al livello della fisica fondamentale, ma che va posto al livello della psicologia, e in particolare a quello degli agenti intenzionali, ovvero esseri come noi, orientati agli obiettivi.[2]
Si tratterebbe quindi di un fenomeno che emerge sì da determinati processi fisici, ma che per poter essere compreso richiede di andare oltre la fisica. Per List infatti: «Se cerchiamo il libero arbitrio a livello fisico, stiamo semplicemente cercando nel posto sbagliato».[3] E ancora:
Se vogliamo comprendere le persone e le loro azioni, abbiamo bisogno di descrizioni psicologiche: descrizioni che si riferiscono a pensieri e credenze, preferenze e desideri, obiettivi e intenzioni.
[…] non ci dovrebbe sorprendere il fatto che la capacità di una persona di compiere libere scelte sia introvabile a livello fisico o neurofisiologico. La nostra incapacità di rintracciare la libertà a quel livello dimostra semplicemente che il libero arbitrio non è un fenomeno fisico o neurofisiologico; non dimostra affatto che esso sia irreale.
Naturalmente, i fenomeni di livello superiore non fluttuano sospesi nel nulla. Qualsiasi fenomeno di livello superiore dipende da ciò che accade a livello fisico: «sopravviene» su esso, come dicono i filosofi.[4]
Secondo List un fenomeno può dirsi reale nel momento in cui ammettere la sua esistenza è indispensabile a fini esplicativi e rispettabile da un punto di vista scientifico. Se ci si pensa, è la stessa posizione che sostiene e adotta Freud nella costituzione della metapsicologia e che lo porta anche a elaborare un determinismo mentale, non cerebrale. Nel 1915 Freud scriveva che
tutti i tentativi di scoprire […] una localizzazione dei processi psichici, tutti gli sforzi intesi a stabilire che le rappresentazioni sono accumulate in cellule nervose e gli eccitamenti viaggiano lungo le fibre nervose sono completamente falliti. La stessa sorte toccherebbe a una dottrina che volesse, poniamo, individuare nella corteccia la sede anatomica del sistema C, dell’attività psichica cosciente, e localizzare i processi inconsci nelle aree subcorticali del cervello. Si apre qui uno iato che per il momento non è possibile colmare; e colmarlo non appartiene comunque ai compiti della psicologia.[5]
Il punto è che può anche esserci una correlazione mente-cervello, ma per studiare alcune questioni è opportuno occuparsi della psiche: è necessario e potrebbe anche essere sufficiente occuparsi esclusivamente del determinismo psichico per comprendere il libero arbitrio.
Per Freud non è necessario focalizzare l’attenzione sulla costituzione biologica e genetica del sistema nervoso centrale ai fini di analizzare fenomeni come il libero arbitrio; anzi, farlo potrebbe essere del tutto inutile o, in alcuni casi, limitante. Nella sua ottica, per studiare e comprendere le attività della psiche, è necessario occuparsi di un oggetto specifico: la psiche.
Di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono note due cose: innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema nervoso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza che sono dati immediatamente e che nessuna descrizione potrebbe farci comprendere più da vicino. Tutto ciò che sta in mezzo fra queste due cose ci è sconosciuto, e non è data una relazione diretta fra i due estremi del nostro sapere. Ma se pure una tale relazione esistesse, al massimo potrebbe fornire un’esatta localizzazione dei processi della coscienza, comunque non potrebbe aiutarci a comprenderli meglio.[6]
È ben possibile che ogni evento mentale sia correlato a specifiche interazioni elettrochimiche che avvengono nei neuroni, che a ogni evento mentale corrisponda un evento fisico-chimico nel cervello. Ciò non esclude affatto la possibilità di fare indagini neuroscientifiche, o di ricercare una correlazione tra l’aspetto psicologico e quello neurofisiologico; anzi, nelle pagine freudiane è possibile rintracciare l’intenzione e l’auspicio di una comunicazione tra i due livelli. Il punto è che tali ricerche dovrebbero avvenire in seconda battuta, dopo aver elaborato una teoria dello psichico, che risulta indipendente.
Questa impostazione può portare dei vantaggi a una teoria del libero arbitrio, sia perché è in grado di fornire una concezione capace di spiegare maggiormente l’agire umano, sia perché mette in evidenza che il concetto di conscious will potrebbe risultare povero nel momento in cui si desideri elaborare una teoria esplicativa del libero arbitrio.
Se si pensa, ad esempio, agli atti mancati, ai falsi nessi, oppure ai risultati di alcuni esperimenti di ipnosi è evidente come la questione del libero arbitrio si complichi, perché nella realtà appaiono situazioni in cui è rintracciabile una volontà inconscia, e situazioni in cui si danno atti psichici coscienti esperiti come liberi che, in verità, non lo sono.[7] Vedere la mente in un continuum conscio-inconscio spostando la riflessione a un livello psicologico che consideri un aspetto dinamico (oltre che topico ed economico) consente di costruire una teoria più esplicativa (nonché non riduzionista) dell’agire umano.
Uno dei problemi che appare nei moderni studi sul libero arbitrio deriva dal fatto che si fa coincidere l’aspetto della volontà con l’aspetto della coscienza: siccome si riscontra o si suppone la presenza dell’inconscio nella formulazione di atti e pensieri, allora diventa difficile ammettere l’esistenza della libertà. Freud, analizzando i falsi nessi, mostra che anche atti coscienti esperiti come liberi sono determinati da qualcosa che in qualche modo resta inconscio. Ma è proprio questa continuità psichica inconscia a fondare ontologicamente la dimensione psichica.
Ciò che caratterizza l’atto psichico è il fatto di essere dotato di senso, e tale senso gli viene fornito proprio dalle sue molteplici relazioni con altri atti psichici.[8] Un processo somatico, anche nel momento in cui può determinare un comportamento (ad esempio un riflesso), non si qualifica come psichico, benché poi ciò che viene percepito possa essere integrato in una concatenazione psichica. Spesso non si tiene conto della concezione freudiana del fenomeno psichico, in special modo quando vuole differenziare l’ambito della psicologia dall’ambito non psicologico. A rendere più complessa la posizione freudiana è la fondamentale assunzione che lo psichico è in sé inconscio e questo, in pratica, si traduce nel fatto che la dimensione intenzionale, la dimensione del senso, non è riservata ai soli fenomeni coscienti. Le posizioni rigidamente deterministe tendono a ignorare la distinzione tra psichico e non-psichico che invece in Freud è essenziale; così facendo non differenziano i processi semplicemente fisiologici da quelli psichici inconsci o da quelli consci. Il determinismo psichico è quindi in primo luogo psichico (ovvero si muove preservando il senso), e in secondo luogo plurimo (ovvero risultato di una dinamica intenzionalmente complessa). Non esiste un evento psichico se non in tale dimensione costitutiva.
L’atto di scelta potrà essere libero solo se la sua motivazione sarà dotata di senso, ed è proprio la determinazione a rendere possibile la volontà libera: il libero arbitrio non è fuori dalla causalità psichica, bensì vi si radica all’interno. È il fatto che l’essere umano agisca sempre con motivazione che rende possibile imputare al soggetto sia le cause dei suoi atti psichici, sia la scelta tra alternative possibili e, di conseguenza, rende possibile parlare di libero arbitrio.
Lo stesso fatto di sottolineare che quando si tratta di scelte importanti tutti sono disposti a concedere l’esistenza di un aspetto deterministico, evidenzia il punto di vista freudiano: il determinismo è accettato perché risponde alla determinazione logica del senso. Un atto o un pensiero incausato non potrebbe essere libero perché non sarebbe neppure qualcosa di psichico, in quanto completamente irrelato rispetto al carattere e alla personalità dell’agente, alle sue azioni o scelte precedenti.
L’estensione totale del determinismo così concepito diventa indispensabile per creare una teoria della libertà del volere, perché solo nell’ottica di una onnipresente concatenazione causale compare una reale possibilità per il soggetto di poter sempre scegliere (ed essere quindi veramente libero). Semplicemente: se il determinismo psichico presentasse lacune, se non vi fosse un «rigoroso determinismo che governa senza eccezioni la vita psichica»,[9] allora l’individuo vivrebbe nella condizione di non essere libero di decidere. Per certi versi il soggetto stesso si troverebbe senza un fondamento ontologico, tornando ad essere astratta res cogitans. Invece, nell’ottica freudiana, anche quando il soggetto non conosce le cause delle sue azioni, la libertà è possibile.
Queste osservazioni fanno riflettere: assumere un’impostazione di stampo freudiano potrebbe sia evitare di attribuire al soggetto una libera scelta dove in realtà non c’è, sia di far perdere elementi importanti nello studio della spinosa questione della libertà. L’esperienza porta in luce che non conta solo il livello cosciente per considerare un’azione frutto della libera volontà. Questo risulta particolarmente evidente nella pratica clinica.
Nella teoria freudiana il libero arbitrio coincide con la possibilità di disporre della propria libido e, per questa ragione, la pratica psicoanalitica assume lo scopo di aiutare il soggetto ad acquisire questa libertà, o almeno la capacità[10] di questa libertà. Come scrive Freud, gli sforzi terapeutici della psicanalisi hanno l’intenzione «di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io».[11] Non è certo un lavoro semplice, anzi «L’esperienza ci ha insegnato che la terapia psicoanalitica – opera di liberazione di un essere umano dai suoi sintomi nevrotici, inibizioni e anomalie del carattere – è un lavoro lungo e faticoso»[12] che prevede la sostituzione dell’«inconscio con il cosciente».[13] Superficialmente si potrebbe pensare che nel momento in cui le persone sanno coscientemente qualcosa, siano anche capaci di metterla in atto. Tuttavia, non è inusuale osservare situazioni ben diverse in cui gli individui sanno, ma non riescono ad agire in linea con il loro sapere. È la classica situazione del nevrotico che, ad esempio, si rende conto dell’assurdità dei suoi sintomi, ma non riesce a fare altrimenti. Come scrive Freud:
il conflitto patogeno dei nevrotici non va scambiato per una normale lotta tra impulsi psichici che si trovano sullo stesso terreno psicologico. È un contrasto di forze, una delle quali è giunta al gradino del preconscio e del conscio, mentre l’altra è stata trattenuta al gradino dell’inconscio. È per questo che il conflitto non può giungere a conclusione: i contendenti non hanno nulla da spartire tra di loro, come l’orso polare e la balena. Una decisione vera e propria può aver luogo soltanto quando i due s’incontrano sullo stesso terreno. Rendere ciò possibile è secondo me l’unico compito della terapia.
Inoltre, posso assicurarvi che siete male informati se supponete che l’influsso dell’analisi sia espressamente diretto a consigliare e a guidare nelle faccende della vita. Al contrario, noi respingiamo per quanto ci è possibile la parte di mentori, poiché ciò che più ci interessa è che l’ammalato prenda da sé le sue decisioni.[14]
Il punto che evidenzia Freud è proprio la possibilità, attraverso un’analisi, di risolvere questo conflitto: il soggetto, superato il conflitto patogeno, diventa libero di decidere e di agire in base al suo sapere.
Il lavoro dell’analista e del paziente è arduo perché coinvolge contemporaneamente tre aspetti: topico, dinamico ed economico. Sicuramente è fondamentale portare a livello cosciente ciò che è inconscio riempiendo le lacune della memoria, ma per farlo è indispensabile comprendere, affrontare e anche superare le resistenze. Solo in questo modo è possibile trasformare il conflitto patogeno in un «conflitto normale che deve trovare in qualche modo una risoluzione».[15] In altre parole, non basta far diventare cosciente ciò che è inconscio (aspetto topico), deve anche consumarsi e risolversi sullo stesso terreno il contrasto di forze che ha generato il conflitto (aspetto topico + dinamico) e deve esserci, da parte dell’Io dell’analizzante, una quantità di energia sufficiente per gestire e vincere il conflitto (aspetto topico + dinamico + economico).
Si capisce quindi che il libero arbitrio come opportunità e capacità, per Freud, esiste e non è solo la capacità di fare un ragionamento, ma anche l’avere le risorse per metterlo in atto e contrastare una serie di resistenze.
Ed è proprio in questa concezione del libero arbitrio che possiamo rintracciare il motivo per cui Freud insiste circa la posizione che deve tenere l’analista
[l’esito terapeutico] dipende altresì dalla possibilità che la persona dell’analista sia collocata dall’ammalato al posto del suo ideale dell’Io; a ciò si connette per l’analista la tentazione di assumere verso il malato il ruolo del profeta, del salvatore d’anime, del redentore. Ma poiché le regole dell’analisi escludono decisamente una tale utilizzazione della personalità del medico, bisogna onestamente riconoscere che è posta qui una nuova limitazione all’efficacia dell’analisi: la quale non ha certo il compito di rendere impossibili le reazioni morbose, ma piuttosto quello di creare per l’Io del malato la libertà di optare per una soluzione o per l’altra.[16]
È indispensabile considerare la questione del transfert: l’investimento libidico riversato sull’analista sicuramente consente di fare molto, perché permette di mobilitare diversa energia a favore dell’Io. All’inizio l’analista può sfruttare questa libido per aiutare l’analizzante, ma poi è necessario trovare il modo di restituirla all’Io, che deve riappropriarsene per poi usarla appunto liberamente. È necessario che l’analista rinunci all’investimento libidico del paziente per far sì che sia l’Io a decidere cosa farne. È un monito quello di Freud: l’analista deve consentire al paziente di recuperare la libido che ha inizialmente messo su di lui. È un bene che tale investimento sia avvenuto, perché, grazie a questo, l’Io ha iniziato a disporre di un maggiore investimento libidico, grazie alla funzione dell’analista; tuttavia l’analisi richiede che tale libido diventi una concreta conquista dell’Io: l’Io deve appropriarsene e mantenerla, senza poi spostarla su un altro oggetto. E infatti Freud scrive: «Durante il lavoro terapeutico dobbiamo preoccuparci della ripartizione della libido nell’ammalato; cerchiamo di capire a quali rappresentazioni oggettuali la libido è legata e la rendiamo libera per metterla a disposizione dell’Io».[17]
Se l’analista diventa un direttore di coscienza non solo non può esservi psicanalisi, ma non può esserci nemmeno libertà, perché nessuna conquista è stata fatta: la libido resta fissata sull’analista. Per far diventare l’Io capace di gestire quella libido è necessario passare attraverso il disinvestimento dell’analista, che deve essere tolto dalla posizione della sua figura ideale.[18]
Tutte queste considerazioni non solo rimettono in luce l’impossibilità di imputare a Freud una negazione della libertà, ma permettono anche di scorgere nel percorso analitico la possibilità di incrementare l’agency e, di conseguenza, lo stesso libero arbitrio, non solo attraverso il processo terapeutico, ma anche mediante la particolare posizione che l’analista deve essere consapevole di assumere. Questo emerge in maniera esplicita quando Freud stesso contrappone esplicitamente il compito di liberazione che si propone l’analisi con l’obiettivo terapeutico:
Per quanto riguarda il transfert, esso è un vero tormento. […] In generale sono d’accordo con Stekel che il paziente va tenuto in uno stato di astinenza, di amore insoddisfatto, ma questo naturalmente non è sempre possibile. Quanto più lei gli permetterà di trovare amore, tanto più rapidamente raggiungerà i suoi complessi, ma tanto minore sarà il successo finale, poiché il paziente si priva degli appagamenti di complessi abituali solo perché può scambiarli con i risultati della traslazione. Il successo è splendido, ma dipende interamente dalla traslazione. Si otterrà forse la guarigione, ma non il necessario grado di autonomia, né la garanzia contro le ricadute.[19]
Ecco perché le parole «decisione», «coscienza» e «responsabilità» si comprendono bene tenendo conto delle parole che Freud scrive a Jones in una lettera del 21 settembre 1913:
Spero che Lei ammetta che vagheggiamo la libertà dell’individuo e che il puritanesimo americano non ci sembra affatto un progresso. Potrebbe comunque ricordare a Putnam che nel nostro sistema di cura i consigli non hanno una funzione fondamentale e che siamo ben contenti che ogni uomo decida le questioni delicate secondo coscienza e sotto la propria responsabilità personale.[20]
Freud ammette senza problemi che «nel caso di certe persone molto giovani, o sprovvedute e instabili, […] dobbiamo combinare l’opera del medico con quella dell’educatore», ma evidenzia subito che «allora siamo ben consci della nostra responsabilità e ci comportiamo con la necessaria cautela»,[21] perché «L’ambizione educativa è infruttuosa quanto l’ambizione terapeutica».[22] Lo scopo in psicanalisi non è certo riformare l’individuo.
Il nostro obiettivo non dovrà essere quello di livellare tutte le specifiche particolarità individuali a favore di una schematica «normalità», o addirittura di pretendere che l’individuo «analizzato a fondo» non senta più alcuna passione e non sviluppi alcun conflitto interno. L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto.[23]
L’obiettivo di un analista non è né raggiungere una oggettiva normalità, né eliminare definitivamente i conflitti interni al paziente, bensì creare le condizioni per far funzionare meglio l’Io.
L’analisi mira a creare le possibilità per fortificare i «caratteri principali dell’Io», a rafforzare le sue naturali capacità cognitive. In definitiva, un percorso analitico rende maggiormente possibile l’autodeterminazione del soggetto seppur continui a considerarlo all’interno di una cornice deterministica. Tenendo conto della natura della psiche e mantenendo centrale lo scopo conoscitivo, aiuta infatti l’analizzante ad apprendere le proprie dinamiche inconsce incrementando le risorse del suo Io che, se riesce a risolvere i conflitti, acquisisce non solo sapere, ma anche l’agognata capacità di decidere e, quindi, di scegliere.
Il fine degli sforzi di un analista, come spiega Freud, si può esprimere in diverse formule:
rendere cosciente l’inconscio, abolire le rimozioni, riempire le lacune della memoria; tutto questo mette capo alla stessa cosa. Ma forse siete insoddisfatti di questa dichiarazione. Vi siete immaginati il processo di guarigione di un nervoso come qualcosa di diverso: che, dopo essersi sottoposto al faticoso lavoro di una psicoanalisi, egli diventi un altro uomo; e poi tutto il risultato sarebbe che egli ha in sé un po’ meno di inconscio e un po’ più di conscio rispetto a prima. Il fatto è che probabilmente voi sottovalutate l’importanza di un simile mutamento interiore. Il nervoso guarito è diventato davvero un altro uomo, ma in fondo, naturalmente, è rimasto lo stesso; ossia, è diventato quale avrebbe potuto diventare, a dir molto, nelle condizioni più favorevoli. Ma questo è moltissimo.[24]
È moltissimo perché, in definitiva e in estrema sintesi, l’individuo diventa libero o, per lo meno, più libero di quanto fosse prima.
Quindi, in conclusione, per Freud ogni soggetto è l’autore delle proprie scelte, decisioni e azioni e lo è anche tutte quelle volte che non esperisce questa certezza; il punto è che non sempre è un libero autore. La libertà del volere non può dirsi una condizione assoluta e presente di default nella vita di ogni soggetto; piuttosto, essa appare come una possibilità, una capacità spesso ottenuta con impegno e fatica seguendo l’imperativo del «conosci te stesso». L’individuo, in sintesi, è sì determinato, ma anche (e per certi versi proprio per questo) sempre e possibilmente libero.
Bibliografia
De Caro, M. (2020), Siamo liberi? Il libero arbitrio tra realtà esterna e realtà interna, in Rivista di Psicoanalisi, LXVI, 1, pp. 147-159.
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Freud, S. (1918), Vie della terapia psicoanalitica, OSF 9.
Freud, S. (1919), Il perturbante, OSF 9.
Freud, S. (1922), L’Io e l’Es, OSF 9.
Freud, S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), OSF 11.
Freud, S. (1937), Analisi terminabile e interminabile, OSF 11.
Freud, S. (1938), Compendio di psicoanalisi, OSF 11.
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List, C. (2020), Il libero arbitrio: Una realtà contestata, Einaudi.
Sen, A. K. (1986), The Concept of Well-Being, in Essays on Economic Progress and Welfare. In honour of I. G. Patel, edito da S. Guhan e M. Shroff, Oxford University Press, pp. 174-192.
Sen, A. K. (2007), La libertà individuale come impegno sociale, Laterza.
[1] Cfr. Freud, S. (1919), Il perturbante, OSF 9, p. 97.
[2] List, C. (2020), Il libero arbitrio: Una realtà contestata, Einaudi, p. 6.
[3] Ivi, p. 7.
[4] Ivi, pp. 9-10.
[5] Freud, S. (1915), Metapsicologia, OSF 8, p. 57.
[6] Freud, S. (1938), Compendio di psicoanalisi, OSF 11, p. 572.
[7] Per una rassegna recente cfr. De Caro, M. (2020), Siamo liberi? Il libero arbitrio tra realtà esterna e realtà interna, in Rivista di Psicoanalisi, LXVI, 1, pp. 147-159.
[8] Si veda ad esempio quanto Freud scrive in Introduzione alla psicoanalisi: «Soffermiamoci ancora un momento sull’affermazione che gli atti mancati sono “atti psichici”. Contiene essa qualcosa di più rispetto all’altra nostra asserzione, ossia che essi hanno un senso? Non lo credo; è piuttosto più indefinita ed equivoca. Tutto ciò che si può osservare nella vita psichica verrà designato per il momento come fenomeno psichico. Il problema diventerà quindi quello di appurare se la singola espressione psichica è scaturita direttamente da influenze somatiche, organiche, materiali, nel qual caso la sua indagine non spetta alla psicologia, oppure se essa deriva in primo luogo da altri processi psichici, dietro ai quali ha pertanto inizio, in qualche punto, la serie delle influenze organiche. È quest’ultima situazione che abbiamo in mente quando designiamo un fenomeno come processo psichico e per questo è più appropriato esprimere la nostra asserzione nella forma: il fenomeno è dotato di senso, ha un senso. Per “senso” noi intendiamo significato, intenzione, tendenza e posizione in un concatenarsi di eventi psichici». Freud, S. (1915-17), Introduzione alla psicoanalisi, OSF 8, pp. 240-241.
[9] Freud, S. (1909) Cinque conferenze sulla psicoanalisi, OSF 6, p. 170.
[10] Cfr. Sen, A. K. (1986), The Concept of Well-Being, in Essays on Economic Progress and Welfare. In honour of I. G. Patel, edito da S. Guhan e M. Shroff, Oxford University Press, pp. 174-192; Sen, A. K. (2007), La libertà individuale come impegno sociale, Laterza.
[11] Freud, S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), OSF 11, p. 190.
[12] Freud, S. (1937), Analisi terminabile e interminabile, OSF 11, p. 499.
[13] Freud, S. (1915-17), op. cit., p. 584.
[14] Ivi, p. 583. Corsivo mio.
[15] Ivi, p. 585.
[16] Freud, S. (1922), L’Io e l’Es, OSF 9, p. 512, nota 1.
[17] Freud, S. (1916), Una difficoltà della psicoanalisi, OSF 8, pp. 658-659.
[18] Le questioni legate allo scopo conoscitivo (e non orientato alla guarigione) e al transfert sono molto care a Freud, tanto che si possono trovare vari passi nelle sue opere (e non solo) in cui le presenta.
[19] Freud S. (1990), Psicoanalisi e fede: lettere tra Freud e il pastore Pfister (1909-1939), Bollati Boringhieri, lettera 5 giugno 1910, p. 39. Corsivo mio.
[20] Cfr. ibid.
[21] Freud, S. (1915-17), op. cit., pp. 583-584.
[22] Freud, S. (1911-12), Tecnica della psicoanalisi, OSF 6, p. 539. Tale concetto viene ribadito più volte da Freud. Ad esempio, in Vie della terapia psicoanalitica scrive: «Non possiamo evitare di prendere in cura anche dei malati talmente sprovveduti e incapaci di condurre una vita normale che per essi l’influsso analitico non può non combinarsi con quello pedagogico, e anche nella maggior parte degli altri casi accadrà talvolta che il medico sia costretto ad assumere la funzione dell’educatore e del consigliere. Ma bisogna sempre agire con la massima cautela, e il malato non dev’essere educato ad assomigliarci, ma piuttosto a liberarsi e a realizzare compiutamente la sua stessa natura». Cfr. Freud, S. (1918), Vie della terapia psicoanalitica, OSF 9, p. 25.
[23] Freud, S. (1937), op. cit., p. 532.
[24] Freud, S. (1915-17), op. cit., p. 585.