Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 26
1 - 2022 mese di Giugno
CLINICA – IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
COMMENTO A LA RINUNCIA ALLA VENDETTA E IL PERDONO, DI R. CARNEVALI
di Luca Mazzotta

 

Il tema del perdono è un tema scomodo. I nostri studi professionali sono frequentati da persone che spesso sentono di aver subito un torto, un danno, di essere stati deprivati, offesi, umiliati, maltrattati. A volte non è solo quello che sentono ma è anche quello che hanno realmente subìto.


Non entrerò nella questione se sia un valido e ragionevole obiettivo terapeutico quello di portare il paziente su una posizione che contempli la possibilità di perdonare, vedendo questo risultato come qualcosa che possa favorire e significare un maggiore benessere. Quando facciamo terapia psicoanalitica abbiamo sempre il dovere di comprendere le motivazioni di fondo del singolo paziente: ad esempio c’è il paziente che, nascondendosi dietro il vestito “buono”, di colui che perdona, si eleva a divinità onnipotente, negando così il danno subìto e il dolore conseguente. Forse in questo caso è proprio dell’onnipotenza (ferita) che ci si dovrebbe occupare, mentre portare il paziente verso il perdono potrebbe rappresentare una collusione con i suoi movimenti difensivi. C’è poi il paziente che, grazie al perdono, è come se restasse intrappolato in una vicenda edipica in cui la sua aggressività è vissuta come qualcosa di colpevole e non come la spinta verso una nuova individuazione e adultizzazione: non ha altra scelta che il perdono, quindi non può dirsi libero ma all’interno di una trappola nevrotica.


Il discorso comunque è davvero complesso e non mi sento abbastanza “attrezzato” per addentrarmi ulteriormente. Personalmente nutro qualche perplessità sulle terapie che hanno come obiettivo quello di favorire il perdono.


E poi cosa significa perdonare da un punto di vista personale, psichico? Cessare di provare rancore? Oppure rinunciare ad ottenere un risarcimento? E se non è possibile ottenere un risarcimento? Rinunciare alla vendetta?


Ho sempre adorato i film western. Il tema della vendetta è dominante. La vendetta cerca di chiudere un cerchio, di placare le acque, anche se non offre mai piena soddisfazione. Il danno infatti è irreparabile. La vendetta mette un po’ più “a livello” i personaggi del film: i buoni diventano un po’ più cattivi, i cattivi ci fanno un po’ più pena, le vittime diventano carnefici e i carnefici sono (e lo sappiamo già fin dall’inizio del film) le vittime designate. Non è più così facile identificarsi totalmente con un personaggio, spesso siamo confusi. Bene e male non sono più così separati. Quindi, paradossalmente, perdonare potrebbe significare mantenersi nella posizione del buono, prendere le distanze dal cattivo (interno e non solo esterno) se non addirittura negarlo e dunque mantenere intatta una netta scissione interna.


Non è un tema facile e altri, tra cui lo stesso Carnevali, hanno detto molto in merito. Vorrei invece soffermarmi sulla situazione clinica che Roberto Carnevali ci offre, attraverso un piccolo stralcio del suo lavoro. Roberto propone al paziente l’episodio raccontato e vissuto da Liliana Segre e, così facendo, pensa di proporgli una rappresentazione unica che ha a che fare con l’idea di perdono e con l’idea di vendetta (o meglio di rinuncia alla vendetta). La reazione del paziente, nella seduta successiva, spiazza in qualche modo il terapeuta: il paziente non ha legato insieme i due concetti così come invece avviene nella mente del terapeuta. La prima reazione di Carnevali è ovviamente conservativa: “Per pochi istanti ho pensato che stesse giocando il gioco che ho descritto poco più sopra, attribuendomi idee che sono dentro di lui e che richiedono il mio avallo”.


È ovvio che la prima reazione non possa che essere di questo tipo poiché il legame associativo nella mente del terapeuta c’è per qualche ragione e deve essere preservato, perché l’esperienza porta immediatamente il terapeuta a verificare che non si tratti di una di quelle situazioni in cui il paziente travisa le parole e le idee del terapeuta, perché si è sempre molto attenti ai movimenti difensivi del paziente, perché sul tema Carnevali si è già espresso ed ha scritto. Insomma, mettere in discussione il legame tra le due idee non è, per l’apparato psichico del terapeuta, un movimento “economico”.


Eppure qualcosa accade, e si tratta a mio avviso di qualcosa di raro e non banale: “in un istante ho capito che questa volta il mio interlocutore aveva ragione, e che ero io che avevo messo insieme due elementi che in realtà sono agli antipodi, creando una sintonia fasulla che adesso mi mostrava con evidenza le sue contraddizioni”.


Il terapeuta mostra una libertà ed una flessibilità interna poco comuni, è in grado di rimettere in discussione un suo legame associativo, dando così inizio ad un processo di ristrutturazione dell’idea di perdono che aveva avuto sino a quel momento. È qualcosa di auspicabile ma non scontato nella nostra pratica psicoterapeutica. Sono certamente innumerevoli le volte in cui evitiamo, in modo del tutto inconsapevole, di mettere in discussione i nostri legami associativi. 


Sappiamo bene come nella nostra mente, a scopo difensivo, si “cancellino” alcuni legami associativi (tra due rappresentazioni o tra affetti e rappresentazioni) oppure se ne “creino” alcuni che potremmo definire, un po’ “forzati”. Per Carnevali tra perdono e rinuncia alla vendetta vi era un’equivalenza logica. In realtà dopo, grazie all’ascolto del paziente e alla sua capacità di pensare, comprende che il primo implica il secondo, ma non vale il contrario.


Una riflessione a margine: il perdono è un’idea che ha a che fare con un affetto interno (cesso di portare rancore) mentre la vendetta è un’idea che si riferisce ad un’azione rivolta verso l’esterno. Credo che si possa essere d’accordo sull’impossibilità di determinare, con un atto di volontà, i nostri affetti: non possiamo decidere di cessare di provare rancore, di amare, di odiare ecc. Un atto di volontà invece può certamente dare il via o inibire un’azione. Dunque possiamo solo decidere di vendicarci o non vendicarci. Ma trovarsi davanti a questa scelta significa, in realtà, provare rancore.


Se decidere di rinunciare alla vendetta invece significa necessariamente perdonare, allora possiamo supporre che dietro ci sia una negazione del proprio rancore.


Quindi, quando diciamo che “decidiamo” di perdonare, o stiamo dicendo che, nonostante il rancore, rinunciamo a vendicarci oppure semplicemente stiamo negando il nostro stato affettivo carico di rancore.


Il problema però assume una dimensione non banale dal punto di vista psichico perché, posto che sia impossibile decidere di cessare di provare rancore, si può passare direttamente da uno stato affettivo (rancore) all’azione (vendetta), come nei film western, oppure inserire tra questi due termini uno spazio, uno spazio di pensiero. Laddove c’era l’inevitabilità dell’azione (se c’è rancore c’è vendetta) si inserisce la possibilità di un pensiero: c’è rancore (non ti perdono) ma non credo sia opportuno vendicarmi, quindi inibisco l’azione. È ovvio che questo significa farsi carico di un danno subìto, di un Sé danneggiato, di una ferita narcisistica (e a volte non solo narcisistica), di uno stato depressivo (posizione?). Significa farsi carico di un dolore, provare a tollerarlo, se e quando questo è possibile. E non sempre è possibile o si è, comprensibilmente, disposti a farlo. Le due rappresentazioni (rancore e vendetta) possono essere disgiunte perché nel mezzo ora c’è un pensiero.


Carnevali, ascoltando il paziente, ha la possibilità di inserire il pensiero all’interno di un solido nesso associativo, un esempio di non comune capacità di pensare (con estrema libertà) ai propri pensieri.


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