Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 23
2 - 2020 mese di Dicembre
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
INTERVISTA A BEN PASTOR
di Secondo Giacobbi (a cura di)
Ben Pastor (Verbena Volpi-Pastor) è una scrittrice italo- americana. Nata a Roma, a seguito del matrimonio con Daniel Pastor, ufficiale dell’aviazione statunitense si è trasferita in America, dove ha insegnato archeologia e antropologia in varie università. La sua attività di scrittrice si è sviluppata lungo due direttrici: saggi su diversi temi sensibili (dal problema della “mente genocidiale” alle radici storiche della propaganda fascista ecc.). Sull’altra direttrice ha scritto molti libri in cui coniuga il “giallo” con il romanzo storico. Due le principali varianti. La prima ha generato l’imponente ciclo narrativo che ha come protagonista Martin von Bora, ufficiale investigatore tedesco le cui avventure coprono il periodo che va dalla guerra di Spagna alla fine della seconda guerra mondiale. La seconda vede al centro della narrazione Elio Sparziano, storico e investigatore del IV secolo d. Cr. In entrambi i cicli romanzeschi spicca, accanto alla straordinariamente minuziosa ricostruzione degli ambienti storici, una eccezionale sensibilità e capacità di introspezione psicologica, che rendono la scrittura di Ben Pastor particolarmente affascinante. I suoi libri sono scritti in inglese.

Come mai un’esplosione così inarrestabile (e che non dà segni di rallentamento) del giallo e della letteratura investigativa? Come la vede lei?

La domanda è puntuale, e si ripresenta spesso. Forse come mai prima, le varie declinazioni di questo genere (giallo classico, noir, storico, procedural, legal thriller…) hanno incontrato il favore del pubblico. Buon per noi che siamo nel ramo! Peraltro, in momenti un po’ pessimisti, tengo a mente che sono popolarissime anche le riviste di enigmistica e di gossip. Lo dico, incidentalmente, da amante dei rebus e dei cruciverba crittografici… 
Dal punto di vista tecnico, suggerisco che i gialli sono sempre stati considerati una lettura “snella” e di facile approccio; quella che una volta era detta letteratura amena, anche quando non contemplava contenuti comici. Come tale, è un intrattenimento facilmente fruibile e appassionante. La cosa si fa interessante quando gli autori si prefissano l’intento di veicolare altri contenuti rispetto al “chi è stato”, “come ha fatto” e “con quale movente”: contenuti stilistici, psicologici, filosofici, che, come tali, hanno l’ambizione di trascendere la dimensione della mera detection, non rinnegandola ma semmai riorientandola verso altri lidi. In quel caso il loro ruolo somiglia a quello di Epeo, costruttore dell’elegantemente farcito cavallo di Troia. Sta proprio qui il salto di qualità che talvolta trasforma il mystery in letteratura tout court, come ci hanno insegnato magistralmente Simenon, Dürrenmatt e Greene.


Accanto ai molti fattori che possono spiegare la fortuna del giallo, personalmente credo che un fattore poco considerato (anche perché non riconosciuto) sia rappresentato dal bisogno che il lettore prova di liberare ed esprimere attraverso il protagonista (che spesso è un investigatore violento e poco rispettoso dei limiti restrittivi imposti dall'ipergarantismo) un bisogno di “violenza giusta” soprattutto laddove la lotta al male può reclamare mezzi eccezionali. Se è così, la letteratura poliziesca sembra in grado di intercettare con particolare efficacia catartica i bisogni aggressivi e di violenza del soggetto umano. È un tema assai dibattuto da psicologi e psicoanalisti. Lei cosa pensa dell'aggressività e violenza dell'uomo?

Questo è mettere il dito nella piaga, in tempi universalmente aggressivi, perfino nei confronti delle statue e dei monumenti. L’iconoclastia di fondo a cui stiamo assistendo oggi, in questa estate del 2020, a mio avviso è una perversione delle giuste rivendicazioni di tanti. Viviamo in un mondo globalizzato, smitizzato, senza dèi, in cui i demoni diventano asfittiche funzioni televisive per filmetti seriali come “Supernatural” o “Streghe”. Privi di bussola come siamo, al senso di disagio, di esclusione, e anche di giustizia mancata, i gialli possono offrire un piccolo anestetico. Cambiano le cose? No. Ma possono per un po’ far sognare la possibilità di una ricomposizione del vulnus personale e collettivo, se non appagare virtualmente la sete di rivalsa o addirittura di vendetta. Quanto al detective violento e sopra le righe incarnato sullo schermo dall’ispettore Callaghan di Clint Eastwood e dai vari vendicatori interpretati da Arnold Schwarzenegger e Steven Seagal, ammetto che non amo la tipologia. Per citare un detto in inglese, “Two wrongs do not make a right”: due cose (o comportamenti contrapposti) sbagliati, non producono giustizia. Personalmente me la cavo ideando investigatori-soldati che possono esercitare la violenza in tempo di guerra con una certa libertà e giustificazione, ma sempre facendo attenzione a non scadere nella brutalità gratuita. Ritengo che il senso del limite e l’autocontrollo costituiscano due grandi virtù.


Martin Bora è un ufficiale tedesco. Combatte con durezza, uccide, fucila, in base ad un Codice d'Onore che la cultura pacifista dominante fa fatica a comprendere. In quanto investigatore entra in contatto con la complessità del soggetto umano, nel quale Male e Bene si confondono. In fondo è un eroe della complessità e "uomo psicologico" quant'altri mai.

Ebbene, come suggerisce l’ancora fresca vicenda dei due marò Latorre e Girone, le leggi di guerra e le regole d’ingaggio, per quel che riguarda le uccisioni – perfino di civili –, vengono di volta in volta interpretate e reinterpretate, non sfuggendo alle convenienze politiche e ideologiche del momento. Nessuno si sognerebbe di definire il pur irruente generale Patton un criminale di guerra, eppure, durante la campagna di Sicilia, fece fucilare dei soldati italiani caduti prigionieri, e ciò in spregio a qualunque convenzione giuridica. E di esempi simili se ne potrebbero citare a bizzeffe – che dire, per aggiungere un altro caso, delle stragi di civili greci perpetrate dai soldati italiani nell’Egeo; stragi mai riconosciute pubblicamente dalla Repubblica italiana, tantomeno dai suoi presidenti? È inutile girare intorno alla realtà dei fatti: un militare può anche essere un soccorritore e un costruttore di scuole e ospedali; il suo impiego primario, tuttavia, resta quello del mestiere delle armi, di cui deve essere pronto a fare uso (e talvolta, purtroppo, programmatico abuso) quando ne è richiesto. Martin Bora nasce e cresce nella Mitteleuropa in cui psichiatria, psicologia del profondo e studi del paranormale hanno un grande seguito. Da cattolico e studente di filosofia, è pienamente cosciente del filo del rasoio morale sul quale, come soldato tedesco, si trova a camminare. Per lui la scelta non è mai facile; semmai, diviene più ardua con l’incrudelirsi genocidario della guerra. Rispetta quanto impone la Convenzione di Ginevra a lui contemporanea, non esitando (a rischio della carriera e non solo) a rifiutare di eseguire ordini palesemente illeciti. Suppongo che per lui più che per altri, la dicotomia fra il Bene e il Male sia in realtà un continuum all’interno del quale deve di volta in volta situarsi senza perdere di vista la pietà (=pietas).


Elio Sparziano è un uomo di Roma, un soldato ligio e fedele, a sua volta duro e spietato, se occorre. Eppure anche lui è uomo della complessità, in quanto cittadino di un Impero plurietnico, notoriamente tollerante nei confronti di tutti i culti e le credenze religiose. Nei libri di Sparziano colpisce il dogmatismo fanatico e potenzialmente intollerante dei cristiani dell'epoca. Qui si potrebbe cogliere una qualche analogia col mondo contemporaneo e i suoi fanatismi?

Indubbiamente. Il mondo del IV secolo dopo Cristo somiglia molto al nostro: movimenti di popoli, epidemie, conflitti etnici e di religione, iconoclastia, fondamentalismi, disparità economiche e collasso finanziario. Sparziano vi si muove con la sicurezza della sua tolleranza laica e della sua incrollabile fede nel nome di Roma. Per Roma, come lui stesso dichiara, farebbe “qualsiasi cosa”. Da uomo non ancora ingabbiato nelle strutture psichiche della futura modernità, nonché da pagano, è libero dalle pastoie di quella che definirei psicologia da rotocalco. Non può sentirsi “depresso” né soffrire di “complessi”; gli è aliena la definizione di “peccato”. Eppure, da seguace dello Stoicismo, non gli manca il senso dell’etica; come pure, da essere umano, non è alieno dall’esperienza della malinconia. Semplicemente, trova inaccettabile la natura esclusiva e gelosa delle religioni rivelate. Se c’è una piccola lezione nascosta nei romanzi di Elio Sparziano, è esattamente questa: ricordiamo cosa accadde dopo la fine dell’Impero. Dovranno passare quasi mille anni prima che le luci si riaccendano con l’Umanesimo.


Bora e Sparziano sono due soldati. È evidente il rispetto con cui lei tratta gli uomini di guerra e di spada. Ciò colpisce perché la nostra cultura, forse anche per la sua fortissima impronta cattolica, svalorizza la figura dell'uomo d'armi. Da un punto di vista psicopolitico è probabilmente un male, perché consegna valori fondamentali come il senso dell'onore e il coraggio virile ai vari neofascismi, che se ne fanno esclusivi e strumentali difensori.

Mi sembra che ogni volta che una società diviene preda della correttezza politica, ci sia qualcuno che paradossalmente decide quali siano la liceità o illegittimità non solo dei comportamenti pubblici, ma anche delle scelte personali. Onore e coraggio virile dovrebbero essere un retaggio comune. Spesso, invece, queste qualità sono esclusivamente ed erroneamente identificate con la sopraffazione e il bieco militarismo che albergano nell’estremismo di ogni tipo e di ogni marca. Occasionalmente, poi, le virtù civiche e militari escono dalla porta della realtà per rientrare dalla finestra della fantasia, quando non del fantasy: attraverso romanzi e film che celebrano qualità cavalleresche sparite da tempo, seppure mai esistite. Nel genere horror, poi, ogni tipo di violenza e ferocia divengono magicamente politically correct perché esercitate contro mostri, zombies, alieni…


Nella sua opera colpisce la straordinaria sensibilità e profondità psicologica. Posso chiederle se la psicologia del profondo è presente in lei, oltre che con letture di studio, anche con esperienze personali?

Va da sé che una misura di intuizione e penetrazione psicologica sia di grande aiuto a chi scrive di mestiere. Da lettrice, mi è sempre risultato difficile capire se romanzieri e poeti siano più sensibili degli altri, o meramente più capaci di esternare i propri sentimenti. Ho il sospetto che in alcuni casi i sentimenti non siano nemmeno i loro, ma quelli che inventano per i loro protagonisti. Scrivendo ormai da anni di personaggi così dissimili dalla mia esperienza quotidiana, posso solo ricorrere al concetto di affinità elettive (nel mio caso immedesimazione con il maschio in una situazione di stress legato alla guerra). Ho letto con attenzione Freud, Jung, von Franz, Bettelheim, Fromm, Bachelard, Campbell, Hillman, ma anche Thoreau, Frazer, Propp, e molti altri. Ho imparato invariabilmente molto, in modi diversi, da ognuno di loro.
Devo poi dar conto di un aspetto curioso che mi accompagna da decenni: come Martin Bora, provengo da una famiglia in cui alcuni membri godono (o soffrono) di una “seconda vista”. Ho il fondato sospetto storiografico che fra i miei antenati ci sia la Doralice Volpi che nella Milano del XVII secolo finì bruciata come strega in Piazza Vetra, ma so per certo – paradossi della Storia e della genealogia – che vi fu anche il vescovo di Como all’epoca della Controriforma e della caccia alle streghe in Valtellina e Val Poschiavo. Quanto ai fantasmi e alle case “infestate”, ne parlo volentieri di persona, e con qualche piccola cognizione di causa!

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