Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 21
2 - 2019 mese di Dicembre
ABBIAMO VISTO...
IL RISCHIO DI OLTREPASSARE LA SOGLIA DELLA FOLLIA
di Roberto Carnevali

In questi ultimi tempi sono state prodotte numerose fiction, tutte di ottima qualità, intorno a temi legati alla disabilità, alla follia, alla devianza. Questi argomenti coinvolgono gli spettatori e hanno sempre, almeno in questo periodo, un alto indice di ascolto. Cito in particolare Pezzi unici, con Sergio Castellitto e Irene Ferri, con la regia di Cinzia TH Torrini, e Ognuno è perfetto, con Edoardo Leo e Cristiana Capotondi, con la regia di Giacomo Campiotti, che hanno saputo essere allo stesso tempo profondi e delicati nei confronti di forme di disabilità o di devianza comunque inquietanti, riuscendo a coinvolgere e a far riflettere.

È stato invece un vero e proprio flop (l’ultima puntata è andata in onda un martedì alle 23,30) la fiction Oltre la soglia, regia di Monica Vullo e Riccardo Mosca, che aveva per protagonista Gabriella Pession, nei panni di una Neuropsichiatra, primario di un reparto ospedaliero, affetta da una forma di schizofrenia che comporta momenti di crisi profonda nei quali compare al suo fianco una se stessa adolescente che le muove critiche profonde scatenando a volte la sua rabbia a volte una deflessione profonda dell’umore. Il tema è doppiamente inquietante, in quanto non solo tutti i personaggi sono portatori di un disagio psichico, ma il confine tra chi cura e chi è curato è continuamente travalicato, provocando un’inquietudine che probabilmente per la maggior parte degli spettatori è risultata insostenibile.


La forma espressiva è molto complessa. Il linguaggio è molto tecnico, e in un primo momento sembra di assistere a una delle tante fiction ambientate in ospedali, dove il reparto è di Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza, ma dove la mentalità medica e i criteri aziendali imperano, creando i conflitti consueti tra la voglia dei medici di lavorare bene e la pretesa degli amministrativi di rispettare il budget. E anche la scena iniziale, nella quale la Pession cerca di entrare nel suo reparto e viene trattata da un agente di custodia come fosse una degente scappata, finché non arriva il collega che dice all’agente che lei è il Primario, appare in una cornice quasi grottesca, che fin lì può ancora dare adito all’idea che Tosca (così si chiama il personaggio, inquieta e passionale come il personaggio pucciniano) sia soltanto una persona un po’ originale e dai modi singolari. E Tosca fa il Primario in modo molto classico; nella sua équipe si cerca una diagnosi precisa, si fanno i test, si cercano le congruenze fra i sintomi e ci si appella alla frequenza statistica di alcune manifestazioni rispetto ad altre.  Poi però Tosca apre il suo mondo ed esprime la sua ricchezza empatica che travalica tutti i confini, e che non riesce a stare all’interno delle “regole”. Tutte le situazioni nelle quali ci si viene a trovare, che sono sempre un intreccio di problemi personali e familiari, che coinvolgono affetti, pensieri ed emozioni, hanno una lettura “clinica” a volte molto puntuale secondo una diagnostica psichiatrica sottile, e al tempo stesso fanno emergere la necessità di un recupero del calore umano che Tosca, a volte proprio partendo dall’inquietudine data dalla sua condizione e dalla consapevolezza di come affrontarla e superarla, riesce ad avere e a trasmettere.


Due frasi mi hanno colpito in modo particolare, per la complessità di riflessione che animano. La prima è detta dallo psichiatra che la affianca e la segue, anche dandole dei farmaci, che le dice (e poi lei lo ripeterà a una paziente) “Tu sei molto più della tua malattia!”. L’altra è detta da Tosca stessa, ed è “Io non sono schizofrenica, io ho la schizofrenia”. Di primo acchito, avrei da ridire su ciascuna di queste due frasi: la prima perché descrive come “malattia” un fenomeno complesso come il disagio psichico, medicalizzandola in modo a mio avviso eccessivo; la seconda perché oggettivizza, sempre come malattia, uno stato dell’anima, evocando un intervento riparativo o circoscrivente di un qualcosa che occupa la persona; oltretutto, trattandosi di schizofrenia, la frase rinforza l’idea di una scissione anziché di una ricomposizione di sé. Avendo però visto tutte le puntate e calandosi nel pensiero di chi ha concepito queste storie, le due frasi assumono anche un significato che può arricchire il pensiero su questo argomento. La prima offre l’idea che per quanto una diagnosi possa essere raffinata e puntuale, non esaurisce le caratteristiche della persona, e che ciascuno di noi ha comunque dell’altro in sé attraverso cui può esprimersi. La seconda rinforza quest’idea, favorendo il riappropriarsi di quelle caratteristiche che posso capire non essere coincidenti con la mia sofferenza, e permettermi di intraprendere un nuovo percorso per altre vie.


Potrei continuare a lungo, e invito chi abbia visto questa fiction ad ampliare il discorso, a mio avviso ricchissimo di spunti di riflessione. Ritengo comprensibile che il grosso pubblico si sia fermato molto prima, e in fondo ci saremo trovati in pochi a vedere l’ultima puntata a partire dalle 23,30 di un martedì, ma per tutti immagino che la motivazione fosse forte. Per reggere Oltre la soglia è necessario avere dentro di sé una notevole dose di quella che Bion chiama “capacità negativa”.

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