Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 19
2 - 2018 mese di Dicembre
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
COMMENTO A “PEDOFILIA E CHIESA CATTOLICA. UNA RIFLESSIONE PSICOANALITICA” DI SECONDO GIACOBBI
di Sara Maccario

Suggestivi gli spunti sollecitati da Secondo Giacobbi rispetto al fenomeno che vede prevalentemente affiancati il sacerdozio cattolico e il fenomeno della pedofilia.

Secondo invita a porre attenzione alla “famiglia divina”, caratteristica del cattolicesimo, osservandola come una famiglia fondata sull’accoppiamento Madre-Figlio con “l’esclusione” del Padre: una famiglia potenzialmente patogena.

Una sollecitazione che mi ha portata a considerare l’accoppiamento madre-figlio all’interno della “famiglia terrena” costituita da differenti “presenze e assenze” paterne. “Assenze” paterne che potremmo declinare all’interno di comportamenti e/o atteggiamenti ora rigidamente autoritari, violenti, abusanti, ora affettivamente passivi, onnipotenti, ora concretamente assenti: dinamiche relazionali non facilitanti il processo separativo madre-bambino.


La presenza di affettive ambivalenze materne non agevolerà l’evolvere dei processi separativi madre-bambino venendo a delinearsi “problematiche” psichiche di differente natura. Inoltre l’assenza paterna o la scarsa presenza affettivo-relazionale del padre andrà ad aggravare o confondere l’evolvere di tali processi. Usando un’osservazione analitica ho immaginato il sacerdozio come la rappresentazione esterna di una mappa intrapsichica caratterizzata dall’insieme di dinamiche relazionali, verosimilmente, abitate da vissuti affettivi legati a primarie ferite narcisistiche affiancate da sistemi difensivi quali la rimozione, la sublimazione, l’allontanamento, la negazione, la dissociazione, la scissione. Una mappa psichica che si caratterizza da quelle non sacerdotali per la presenza di una coppia intrapsichica e poi interpersonale costituita dalla “presente” assenza dell’Altro, idealmente amato/temuto.


Possiamo supporre che alcune forme vocazionali si evolvano all’interno di un clima familiare caratterizzato da una “confusione/distorsione” dei codici affettivi legati alle primarie sensazioni di impotenza-rabbia-angoscia-onnipotenza.

Un ambiente materno-genitoriale probabilmente costituito dal confuso e ambivalente insieme di movimenti aggressivo-reattivi e aggressivo-passivi che colonizzeranno lo psichismo in evoluzione del neonato che verrà “abitato” da affettività relazionali confuse, incoerenti e prive di adeguati equilibri rispetto al binomio impotenza-onnipotenza. L’intensità e la forma psichica delle distanze tra i due stati potrà creare un disequilibrio affettivo-relazionale responsabile di conflittualità o di vere e proprie dissociazioni o scissioni potenzialmente caratterizzate da istanze di stampo persecutorio.

In generale, la “diade divina” intrapsichica facente capo al sacerdozio, è possibile ipotizzarla come evoluta all’interno di un clima materno percepito emotivamente distante o poco “usabile” rispetto ai propri bisogni che saranno sufficientemente repressi, rimossi o proiettati nel divino. Si potrebbe ipotizzare, quindi, la presenza di un primario oggetto materno affettivamente distante, ambivalente, persecutorio, ma al contempo “salvato” e idealizzato attraverso la sublimazione e la proiezione nel divino.

Il divino potrà assumere la funzione di “contenitore” significativo di relazioni materno-genitoriali fusionali, ambivalenti, frustranti e faticose da decodificare in altro modo.


Nel sacerdozio e nelle vocazioni la primaria figura dell’Altro all’interno della “coppia” non è terrena, ma divina, inarrivabile, distante e concretamente non usabile. E’ un Altro “allucinato” e decodificato nel pensiero attraverso le preghiere, un Altro “potente” che tutto sa, tutto può, l’incomincio di tutti e tutti, colui che può vedere senza essere visto, toccare senza concretamente toccare. Un Altrola cui presenza è rappresentata proprio all’interno della sua assenza: movimenti psichici di sublimazione che mi chiamano alla memoria la “ferita dell’assenza” della madre morta di A. Green.

“Posso amarti e sentirmi amato” perché Sei distante e concretamente assente.

Una distanza concreta intrapsichica venuta a crearsi attraverso sistemi proiettivi e di sublimazione, una distanza quale “salvifico” compromesso affettivo, trasformante i brucianti vissuti di frustrante impotenza narcisistica rabbiosa.


Un Altro, un Padre divino quale contenitoredi vissuti materno/paterno che diviene “usabile”, amabile e autorevolmente “espiativo” in ragione della reale distanza, una distanza che sembra l’incarnato sublimato legato alla ferita dell’assenza.

Un Altro divino che “deciderà” i tempi, le eventuali modalità del soddisfacimento rispetto ai propri bisogni e le insindacabili espiazioni colpose.

Si potrebbe ipotizzare, in linea generale, la presenza di un’equazione simbolica all’interno di psichismi volti al sacerdozio e/o vocazioni tout-court così definibile: “Posso farmi toccare da un’esclusiva relazione d’amore solo se l’Altro diventa invisibile, intoccabile e soprattutto “controllato” dal mio pensiero”. Un’esclusiva diade costituita da una presente-assenza presumibilmente strutturatasi sulle “macerie” di quell’affettiva bruciante e inarrivabile “ferita dell’assenza”.

Un amore esclusivo e sufficientemente indiscutibile, un contenitore affettivo divino divenuto confessore e depositario invisibile delle primarie proiezioni di rabbie, angosce, colpe e conflittualità appartenenti al mondo psichico del sacerdote, un mondo psichico scarsamente metabolizzato.

Se alla scarsa metabolizzazione affettiva si affiancherà un clima genitoriale maltrattante e sufficientemente ambivalente nei confronti di cariche aggressive e repressive, si potranno verificare distorsioni psichiche a carico dell’identità di genere potenzialmente generatrici di pensieri o modalità comportamentali legate alle mortificanti e abusanti esperienze anticamente subite.


L’abuso infantile, il maltrattamento fisico e psicologico non sono rari anche all’interno di ambienti ecclesiastici che, differentemente dagli ambienti non ecclesiastici, agiranno il binomio “vittima-aggressore” all’interno di un ambiente contemporaneamente punitivo e salvifico. Potremmo azzardare l’ipotesi che a livello inconsapevole, l’abito sacerdotale potrebbe simbolicamente divenire l’”Incarnato” degli aspetti ambivalenti legati alle primarie ferite narcisistiche subite. Un’ambivalenza affettiva rappresentata ora dal vestire i panni dell’antico aggressore mortificante, punitivo e abusante, ma al contempo timorato e devoto. Ora divenendo vittima sporcata da quel peccato originale “ereditato”, un peccato subito e divenuto colposo, ma espiabile attraverso la preghiera, la “via regia” ai fini di un possibile ricongiungimento salvifico con l’Altro divino: oggetto materno idealmente scisso.


I casi di pedofilia sacerdotali, così come i casi non sacerdotali, possiamo pensarli come distorte reiterazioni traumatiche aventi nell’atto abusante il punto d’incontro tra aggressore e vittima; un incontro che rappresenta quella porzione di “luogo-intrapsichico” anticamente colonizzato da gravi e ambivalenti stati fusionali-simbiotici. Nel sacerdozio si potrebbe azzardare l’ipotesi di un colonizzante e dissociato/scisso clima genitoriale abusante, al contempo caratterizzato da intensi e ambivalenti atteggiamenti religiosi funzionali all’espiazione delle proprie colpevolezze.

La gravità delle perversioni all’interno degli ambienti ecclesiastici potrà evidenziare, quindi, probabili tratti di scissione intrapsichici che vedranno il “divino” divenire depositario di dolorosi aspetti relazionali ambivalenti, persecutori e colposi. Scissioni al servizio della sopravvivenza di un Sé psichicamente spaventato, mortificato, abusato e reso impotente che, nell’onnipotenza del divino, appare poter ritrovare quella perversa complicità di “legame” invisibile, ma potenzialmente espiativo e salvifico.

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