Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 17
2 - 2017 mese di Dicembre
CLINICA
IL DINIEGO E LA NEGAZIONE COME IMPOSSIBILITÀ DI ACCEDERE AL “COME SE” ANALITICO
di Luca Mazzotta

Lo leggo nei tuoi occhi. Hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede solo perché aspetta di risvegliarsi. E curiosamente non sei lontano dalla verità. Tu credi nel destino?

No.

Perché no?

Perché non mi piace l'idea di non poter gestire la mia vita.

Capisco perfettamente ciò che intendi. Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c'è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra, nel mondo. Non sai bene di che si tratta ma l'avverti. È un chiodo fisso nel cervello. Da diventarci matto. È questa sensazione che ti ha portato da me. Tu sai di cosa sto parlando.

Di Matrix.

Ti interessa sapere di che si tratta? Che cos'è? Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L'avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.

Quale verità?

Che tu sei uno schiavo. Come tutti gli altri, sei nato in catene, sei nato in una prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore. Una prigione per la tua mente. Nessuno di noi è in grado, purtroppo, di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos'è. È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant'è profonda la tana del bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più. Seguimi.

[Dal film: “The Matrix”  di Larry e Andy Wachowski, 1999]

 

Lo scritto di Medri sul diniego (Pratica Psicoterapeutica n. 14) merita a mio avviso diversi approfondimenti, da quello prettamente teorico a quello clinico, fino a quello esistenziale.

La psiche umana è l’esito evolutivo dell’adattamento della specie: il suo scopo è rendere prevedibile l’interazione con l’ambiente. Grazie alla funzione percettiva e rappresentativa individua classi di oggetti significativi (eventi) e, grazie alla memoria, è in grado di stabilire dei nessi tra questi oggetti. Noi sappiamo che quando nel cielo si addensano delle nuvole potrà piovere. Una conseguenza di questa capacità è che si è portati a dare un senso a tutto ciò che accade: se sta piovendo siamo certi del fatto che prima si siano addensate delle nuvole in cielo. Questa conseguenza, la continua ricerca di senso, incontra dei limiti sui quali si filosofia e religione fondano la loro ragione d’essere: perché esistiamo? In fondo non c’è risposta a questa domanda, il mondo è così e basta, non c’è realmente un perché. L’esistenza, l’universo è una serie casuale di eventi. Tutto questo certamente disturba poiché la mente è sempre proiettata verso la ricerca di nessi, spiegazioni, comprensioni. Verso la ricerca di senso. Se la mente non trova un senso prova ansia. E qui interviene anche la morte. L’uomo grazie alle sue facoltà mentali è perfettamente consapevole del fatto che morirà. O meglio: ognuno dice di esserne consapevole ma nessuno realmente lo comprende. Si può parlare della morte solo come puro come esercizio intellettuale. Per fortuna l’essere umano vive costantemente in una situazione di negazione: si immagina la morte come ci si potrebbe immaginare di passeggiare su un pianeta lontano. Si ammette l’esistenza della morte, ma degli altri!

Scrive Freud in “Noi e la morte” del 1915:

Il conflitto emotivo di fronte alla morte di una persona amata e ciò nonostante anche estranea e odiata ha dato il corso all’umana ricerca. Da questo conflitto emotivo è nata la psicologia. L’uomo primitivo non poteva più rinnegare la morte, poiché nel suo dolore l’aveva parzialmente sperimentata su di sé, ma nello stesso tempo non voleva ammetterne la realtà, poiché gli era impossibile pensare la propria morte.


Per Freud dunque anche se razionalmente se ne ammette l’esistenza, l’inconscio non crede alla propria morte. Dunque sarebbe scopo vano e illusorio quello di poter prendere consapevolezza della propria mortalità attraverso l’analisi dell’inconscio: attraverso l’analisi al limite si prende atto della propria illusione di immortalità, che non implica affatto ammettere la propria mortalità.

Da qui si potrebbe aprire una riflessione di tipo esistenziale che non aprirò. Cercherò invece di approfondire alcuni aspetti teorici e clinici relativi al diniego.

Dicevo, quindi, che la funzione psichica crea nessi e identifica oggetti mentali sulla base di configurazioni cui è possibile assegnare un qualche senso. Ma la mente, nel suo funzionamento, opera anche attraverso meccanismi difensivi il cui scopo è quello di garantire una certa omeostasi emotiva: se il senso di quello che ho davanti è disturbante, la mia mente può modificarne la rappresentazione. Come? Eliminando qualche elemento da una configurazione, che in questo modo diverrebbe qualcosa di differente, oppure eliminando il nesso tra elementi diversi.

Credo che si possa condividere la visione di Kernberg secondo il quale esistono sostanzialmente due tipi di difese: quelle basate sulla rimozione e quelle basate sulla scissione. In realtà credo che non possa esservi scissione senza la negazione: è possibile vedere solo alcuni aspetti di un oggetto solo se contemporaneamente si evita di vederne altri. Quindi si potrebbe dire che esistono due tipi di difese: quella basate sulla rimozione e quelle basate sulla negazione. L’osservazione di Medri a me sembra condivisibile.

Negazione e diniego: è lo stesso meccanismo all’opera

È importante dal punto di vista descrittivo distinguere la negazione dal diniego: nel primo caso è disconosciuto un aspetto della realtà interna mentre nel secondo è un aspetto della realtà esterna a non venire preso in considerazione. Da un punto di vista teorico e clinico invece credo che non sia così importante: in fondo si tratta di disconoscere un aspetto della realtà, che sia interna o esterna non fa molta differenza. Freud parla per lo più di negazione (1925) (un modo di prendere coscienza di una rappresentazione rimossa senza però accettarla) mentre usa il concetto di rinnegamento per quanto riguarda il rifiuto di riconoscere una realtà traumatizzante quale la mancanza del pene nella donna. Nell’Indice Psicoanalitico Hampstead (Bolland, Sandler) si parla indistintamente di diniego (attraverso parole e azioni o in fantasia) come il rifiuto di riconoscere una realtà spiacevole, esterna o interna: per Anna Freud col diniego prima si percepisce qualcosa e poi lo si elimina. Il bambino usa il diniego in situazioni in cui non può sfuggire a qualcosa di spiacevole; quando il bambino è più grande trova altri modi per evitare tali situazioni e il diniego non è più necessario. La Mc Williams quando parla di meccanismi di difesa non distingue tra diniego e negazione e parla solo di diniego. Perry nella Defense Mechanism Rating Scale parla di negazione come del rifiuto di riconoscere qualche aspetto della realtà, esterna o della propria esperienza, che per altri invece sarebbe evidente.

È difficile fare chiarezza tra i meccanismi di difesa poiché, come spesso accade in psicoanalisi, ogni autore propone una sua classificazione ed una sua terminologia. In base a cosa distinguere tra rimozione, negazione, diniego e negazione psicotica?

In generale, per semplicità, la rimozione è come una specie di “amnesia” mentre la negazione è come una specie di “bugia”. L’evidenza clinica mostra che con la rimozione un paziente resta vago su aspetti spiacevoli, non ricorda particolari significativi, perde il filo del discorso, non sa ben definire alcune sue reazioni emotive né spiegarsi il perché di alcune sue reazioni. Con la negazione/diniego invece il paziente evita del tutto alcune domande, è estremamente difensivo, risponde in modo secco o addirittura con rabbia. La rimozione è come una lettera che si è smarrita, che non giunge a destinazione mentre la negazione/diniego è come una lettera che giunge a destinazione ma, una volta giunta, viene rispedita al mittente senza aprirla.

Il diniego non è un sintomo psicotico

In alcuni casi in letteratura si distingue tra negazione nevrotica e negazione psicotica (spesso chiamata diniego) ma è bene fare chiarezza: nella negazione nevrotica e nel diniego il soggetto non riconosce la realtà di una percezione (interna ed esterna rispettivamente) - è come se dicesse “sì lo so, ma faccio finta che non sia vero” - mentre nella negazione psicotica il soggetto rifiuta di riconoscere la percezione tout court, rifiuta di riconoscere un oggetto fisico o un evento che fa parte della sua esperienza immediata.

Il diniego, da un punto di vista cognitivo, opera in tre tempi: in un primo momento si percepisce qualcosa. Poi si prende atto che la percezione provoca uno stato di disagio. Infine si rifiuta di prendere atto della percezione. In che modo è possibile evitare di prendere atto di una percezione? Entra in gioco l’attenzione. L’attenzione è una risorsa limitata ed è proprio questa caratteristica che permette di vedere solo una cosa e non un’altra o entrambe allo stesso momento, di ascoltare solo una delle due voci che si sovrappongono, ecc. (Interessante il libro “Una cosa alla volta . Le regole dell’attenzione” di Legrenzi e Umiltà, Il Mulino, Bologna 2016). La routine quotidiana postmoderna è caratterizzata da un insieme di stimoli contemporanei, dal mito del multitasking. Ebbene tutto ciò è funzionale al diniego: più stimoli ci sono più è facile, una volta identificato, evitare quello disturbante. In fondo l’attenzione entra in gioco anche con lo spostamento legato ai sintomi fobici. Il sintomo fobico è una soluzione di grande efficacia ed ha la funzione di attrarre su di sé ansie e conflitti, lasciando relativamente liberi altri ambiti di vita: l’attenzione è sulla fobia.

Quello che spesso sorprende è che i pazienti, una volta venuti a contatto con una realtà disturbante (interna o esterna), siano in grado di non tenerne conto. Come è possibile che ciò avvenga?  Innanzitutto essere consapevole di qualcosa e riflettere su qualcosa, prenderne atto, sono due cose diverse: gli esperimenti split brain ne sono un esempio. La percezione poi può essere riorganizzata a seconda del punto in cui si focalizzano le risorse attentive: un po’ come con le figure ambigue.

 

Ad esempio nella figura di Boring in un primo momento si percepisce un disegno che prende la forma alternativamente di una ragazza o di una vecchia. È possibile però identificare l’elemento centrale come l’occhio della vecchia (e mai invece come l’orecchio della ragazza) per vedere sempre e solo la vecchia. Fatto ciò, nella figura in seguito troveremo sempre e solo ciò che ci aspettiamo di trovare: se ci aspettiamo una vecchia, la messa a fuoco sarà in un punto leggermente diverso da quello che utilizzeremmo per vedere la ragazza, e ciò avverrà automaticamente. Questo meccanismo è evidentemente molto dispendioso però permette di riconoscere solo una rappresentazione della realtà omettendone un’altra.

Siamo nell’epoca del diniego, il diniego è incoraggiato e sponsorizzato: la psicologia del “pensare positivo” ne è l’esempio più evidente. Basta spostare l’attenzione, vedere il bicchiere mezzo pieno ed il gioco è fatto. “Dai, non ci pensare!” è quello che molte volte ci si sente dire in situazioni difficili. Ed allora noi che come terapeuti utilizziamo la teoria psicoanalitica abbiamo un compito quasi impossibile: creare le condizioni affinché possa emergere il pensiero là dove c’è solo l’azione, l’evitamento inconsapevole, il sintomo, le modalità relazionali ripetitive e automatiche, la struttura caratteriale rigida. Ma se il pensiero emerge prima che sia possibile per il paziente tollerarlo oppure se il pensiero che emerge è un pensiero intollerabile tout court per quel paziente in quella situazione di vita, allora l’unica difesa possibile è il diniego.

Ricapitolando: il diniego non è una difesa psicotica in quanto vi è una importante attività dell’Io legata alle capacità di spostare l’attenzione.

 

Quindi due classi differenti di difese - negazione e rimozione – come espressione di due differenti modalità di funzionamento cognitivo

Sappiamo che ogni nuova informazione o esperienza viene in prima istanza percepita e organizzata mentalmente secondo quelle che sono le modalità infantili della cognizione e della percezione che Piaget ha indicato. Di conseguenza la risposta psichica immediata ad una qualsiasi esperienza è caratterizzata da particolari modalità primitive di funzionamento psichico. Ciò non significa che la persona adulta agisca come un bambino: la persona adulta cercherà una razionalizzazione accettabile e quindi la sua risposta “infantile” si esprimerà nella sua coscienza in forma mascherata e apparentemente ragionevole.

Gli stadi evolutivi di Piaget possono in qualche modo essere correlati ai differenti tipi di difese psichiche. Nello stadio sensomotorio gli affetti non sono distinti dalle percezioni e gli schemi di comportamento e i sentimenti che si sviluppano nelle prime fasi di vita possono persistere per tutta la vita mentale dell’individuo. Ciò significa che in queste prime fasi si forma uno schema sensomotorio di percezione e organizzazione mentale che in seguito persisterà ma verrà riorganizzato da modalità cognitive successive. Anne Marie Sandler racconta di un paziente che continuamente, alla fine delle sedute, rifiutava le interpretazioni dell’analista dopo che in un primo momento sembrava averle assorbite con piacere. Lo stesso paziente ripeteva un tipico schema di comportamento in molti modi: non poteva studiare tutto il programma di un esame, non poteva mantenere troppo a lungo un impiego. L’analisi e le indagini del paziente portarono a scoprire che da bambino aveva sofferto di stenosi pilorica: poteva ingerire il cibo fino ad un certo punto ma poi di colpo era costretto a vomitarlo tutto. Si trattava di uno schema sensomotorio che non aveva una rappresentazione psichica e che era stato via via inglobato nelle esperienze successive.

Nello stadio sensomotorio la realtà e il pensiero sono la stessa cosa, il pensiero per come lo si intende comunemente ancora non esiste, coincide con una realtà concreta, una sensazione fisica, un’azione.

Alla fine del secondo stadio - quello pre-operatorio - che va dal secondo anno di età circa sino ai sei-sette anni, il bambino è in grado di compiere quelle operazioni mentali che caratterizzano una parte importante dell’attività dell’Io: le azioni interiorizzate. Il bambino può immaginare delle alternative senza per questo doverle mettere in atto: si immagina come sarebbe l’ambiente se lui agisse in un determinato modo per modificarlo. Allo stesso tempo, però, in questa fase i pensieri sono molto concreti, molto più vicini all’azione di quanto non lo saranno nelle fasi successive: il bambino non può procedere ancora per induzione e deduzione. A questo livello il bambino è centrato su di sé, il suo personale punto di vista è dominante. Le relazioni di causa ed effetto non sono ben comprese, spesso la causa coincide con lo scopo: “le biglie rotolano giù perché vogliono stare vicino a me”. Si ha a che fare dunque con un pensiero prelogico, le rappresentazioni mentali in qualche modo integrano e prolungano gli schemi sensomotori. Il bambino riesce a trovare una ragione per tutto, ogni cosa deve necessariamente avere una causa identificabile, è incapace di avere una rappresentazione della casualità, dell’accidentalità e inoltre pensieri, fantasie, sentimenti e desideri vengono costantemente fusi con la realtà oggettiva (si pensi all’eziologia delle ossessioni e del pensiero magico relativo alle compulsioni). A questa età per il bambino non è possibile differenziare efficacemente il gioco dalla realtà come due modalità distinte con regole differenti. Piaget diceva che il gioco è una realtà cui il bambino è disposto a credere quando è da solo, proprio come la realtà è un gioco che è disposto a giocare con gli adulti ed ogni altro che ci creda. La differenza tra il bambino sensomotorio e il bambino preoperatorio è che il primo può solo agire mentre il secondo può anche pensare.

Lo stadio preoperatorio copre un periodo evolutivo molto importante: il bambino affronta le fasi psicosessuali preedipiche e la stessa fase edipica con un armamentario cognitivo caratterizzato dal funzionamento senso-motorio e pre-operatorio. È ovvio che non potrà che spiegarsi la differenza tra i sessi con qualcosa che deve essere accaduto. Allo stesso modo la morte, la malattia, la sfortuna o i piaceri inattesi avranno necessariamente tutti una causa. E se fantasie e desideri non sono poi così differenziate dalla realtà, ben sappiamo quali conseguenze avrà un desiderio sentito come colpevole!

Successivamente, attorno ai sette anni, il bambino entra nello stadio operatorio concreto, lo stadio delle vere e proprie strutture intellettuali. Il bambino ora può contare anche su di un sistema cognitivo più coerente e integrato, in grado di dominare la logica delle “classi” e delle “relazioni” con cui struttura la realtà circostante. Ad ogni modo, sebbene questi processi siano simili a quelli di un adulto, il bambino in questo stadio resta maggiormente legato alle esperienze concrete del qui e ora rispetto a quanto farà in seguito, è ancora relativamente incapace di formulare ipotesi generali essendo ancora legato al suo bisogno di organizzare i dati prodotti dai suoi sensi.

Infine durante l’adolescenza si raggiunge il pensiero “operatorio formale”: si può ragionare in modo ipotetico deduttivo. È quindi possibile compiere operazioni logiche su premesse non fattuali ma puramente ipotetiche e quindi di ricavarne conclusioni logiche. In questo stadio la comprensione della realtà avviene anche mediante la formulazione di ipotesi che vengono verificate senza dover manipolare di fatto oggetti concreti, mettendo alla prova le possibilità nel pensiero e formulando leggi e teorie in modo sistematico. Basti pensare a quanto sia diffuso (e non patologico) in adolescenza il ricorso a difese come l’intellettualizzazione.

Da questo punto di vista il funzionamento conscio ha a che fare con le operazioni mentali socialmente accettate e condivise, con le conclusioni logiche, mentre il funzionamento inconscio è quel funzionamento caratterizzato da modalità cognitive tipiche dell’infanzia e dei vari stadi precoci. Il funzionamento inconscio è ovviamente sempre operante ma, essendo di norma non accettabile socialmente ed in conflitto con il funzionamento conscio, non può raggiungere la consapevolezza. I prodotti del funzionamento infantile però non scompaiono ed anzi cercano sempre un’espressione che viene solitamente ostacolata. Questo significa che le teorie, le convinzioni, le ipotesi infantili continuano ad operare nel presente e che ogni nuova informazione o esperienza viene percepita e organizzata anche sulla base delle modalità di funzionamento infantile. Ed è anche a questa percezione che si risponde! L’uomo adulto però deve adattarsi al mondo attuale e quindi cerca di rendere accettabile, da un punto di vista logico e sociale, ciò che appartiene ad un pensiero più primitivo e infantile.

Il metodo delle libere associazioni, quando è indicato, tollerato dal paziente e ben condotto dall’analista, lascia emergere queste modalità primitive di pensiero ed è alla base del trattamento psicoanalitico, inteso come quel particolare processo che porta il paziente ad essere sempre più consapevole del modo di funzionare della sua mente (più che dei contenuti della sua mente). Il paziente non si confronta tanto con delle sue idee inconsce conflittuali ma con delle modalità di percepire, organizzare e fare ipotesi sul mondo strutturate inconsciamente secondo modalità cognitive infantili che, finché appartengono al mondo inconscio, vengono ritenute anch’esse valide e ad esse si reagisce di conseguenza.  Quante volte un paziente dice “Mi viene in mente questa cosa… però non ha senso!”?

La negazione richiede un funzionamento di tipo senso-motorio: se non c’è la percezione non c’è l’oggetto (Piaget, J., 1954. The Construction of Reality in the Child. New York: Basic Books.) mentre una difesa come la rimozione opera su di un registro completamente diverso, operatorio, in cui i concetti iniziano a sostituirsi agli oggetti (ad esempio mediante il raggruppamento in classi) che quindi possono essere messi da parte senza per questo smettere di pensare.

 

Oltre alla teoria di Piaget, particolarmente utile può risultare anche la teoria della mente sviluppata da Fonagy e Target: l’acquisizione di una teoria della mente permette di rappresentare mentalmente le opinioni e i desideri, si tratta dunque di una vera e propria capacità simbolica. Lo sviluppo di questa capacità influenza la possibilità di poter accedere a meccanismi di difesa più o meno maturi. In questo senso la rimozione è un meccanismo relativamente evoluto in quanto richiede l’esclusione di un’idea dalla coscienza: escludere un’idea dalla consapevolezza, infatti, presuppone l’identificazione specifica di quell’idea e quindi la capacità di accedere a delle rappresentazioni. Con la rimozione è la rappresentazione della realtà che viene a mancare. Nel diniego la rappresentazione coincide con la percezione: è la percezione della realtà che deve essere negata e non la sua rappresentazione. È come se una persona dicesse: “Si lo vedo ma non è vero”. L’accesso ed il successivo superamento del conflitto edipico, ad esempio, richiedono rispettivamente la capacità di legare i desideri alla realtà senza farli coincidere, e l’utilizzo di meccanismi di difesa come la rimozione che, in assenza di una adeguata capacità di mentalizzare, potrebbe non essere disponibile.

Sandler giustamente osserva che la barriera della rimozione e l’amnesia infantile che le è associata non sono una conseguenza del processo di rimozione, ma piuttosto un effetto del progressivo sviluppo cognitivo del bambino. [...] La barriera della rimozione non può essere paragonata a un muro che trattiene dietro a sé una riserva di ricordi, bensì può essere più appropriatamente vista come una zona di transizione da un’area di organizzazione cognitiva ad un’altra qualitativamente differente (Sandler J. e Sandler A.M. in Sandler J. e Fonagy P. "Il recupero dei ricordi di abuso. Ricordi veri o falsi?". Milano, Franco Angeli, 2002).

La McWilliams scrive a proposito della rimozione: “Perché qualcosa venga rimosso deve essere in qualche modo conosciuto e poi consegnato all’inconsapevolezza” (McWilliams N. La diagnosi psicoanalitica. Roma. Astrolabio, 1999), cioè perché l’idea, il pensiero, la rappresentazione venga rimossa, deve essere possibile “conoscere” la rappresentazione.

In questo senso è possibile affermare che i meccanismi di difesa più evoluti, in grado di eliminare, modificare e trasformare attivamente le rappresentazioni degli oggetti, vengono acquisiti solo in seguito all’acquisizione della capacità di mentalizzare. Ciò è pienamente congruente con le modalità di pensiero operatorio caratteristiche dei bambini di età superiore ai 5 o 6 anni: la capacità di utilizzare i raggruppamenti logici (ad esempio i raggruppamenti di classe e di relazione) e infra-logici (ad esempio le relazioni parte-tutto o valutazioni spaziali e temporali) permette l’utilizzo di meccanismi di difesa più evoluti. Se la scissione o la negazione possono avvalersi solo delle modalità di pensiero tipiche e non integrate dell’equivalenza psichica o del far finta (“se penso che non è successo, allora non è realmente successo”), le modalità logiche acquisite successivamente (che devono innanzitutto tenere conto della maggiore integrazione tra realtà esterna e realtà psichica) possono essere utilizzate per “manipolare” il pensiero e le rappresentazioni. Ad esempio il concetto di classe permette l’utilizzo dello spostamento così come quello di relazione permette l’idealizzazione o la svalutazione. Allo stesso modo la rimozione non potrebbe operare sulla rappresentazione se non ci fosse la possibilità di riconoscere questa come un fatto mentale slegato dalla realtà cui si riferisce: la rimozione opera sulla rappresentazione di una realtà. Se non vi è la possibilità di avere accesso ad un mondo rappresentazionale che in qualche modo riproduce la realtà ma non coincide con essa non c’è possibilità di rimuovere la rappresentazione, l’idea. Infatti spesso nella rimozione l’idea scompare ma l’affetto ad essa legato permane. Se la rappresentazione coincide con la realtà, questa operazione non è più possibile. Non esiste il mondo del “come se” e dunque su quel mondo non possono essere effettuate operazioni difensive. Esiste solo un mondo percepito e l’unica soluzione a disposizione è quella di volgere lo sguardo altrove.

Quindi, da un punto di vista teorico, il diniego è una difesa legata a processi cognitivi strutturalmente differenti da quelli che regolano il funzionamento conscio e che sono associati a meccanismi difensivi in cui opera la rimozione. Di questo si deve tenere conto nella modalità di conduzione degli interventi nella terapia.

 

È più facile superare la rimozione che il diniego

Non intendo parlare qui dell’uso del diniego come difesa occasionale che emerge in terapia sotto forma di resistenza alle interpretazioni. Da questo punto di vista è ben noto come questa reazione del paziente segnali un intervento del terapeuta effettuato troppo in profondità: il terapeuta invece di preparare il terreno utilizzando elementi preconsci ma accessibili al paziente “forza la mano” ed interpreta direttamente dei contenuti inconsci. Non lavorando in superficie il contenuto non viene riconosciuto dal paziente che, a seconda dei casi e della sua struttura di personalità, può reagire ad esso accettandolo in modo intellettualizzato (mediante una sottomissione compiacente) oppure negandolo. Quello che può essere interessante è occuparsi dei pazienti che utilizzano come modalità difensiva abituale il diniego e la negazione, senza per questo essere necessariamente dei pazienti dal funzionamento francamente psicotico o borderline. Per questi pazienti abbandonare uno stile difensivo (ed una modalità di funzionamento cognitivo) abituale può essere molto faticoso. Nel 1925, in Inibizione, sintomo e angoscia, Freud distingueva cinque principali tipi e fonti di resistenza e tra queste una ha particolare importanza: la resistenza del l'Es, “dovuta alla resistenza dei moti pulsionali ad ogni mutamento della loro modalità e forma di espressione”. Freud scrisse successivamente: “si può presumere che si incontreranno difficoltà quando si voglia che un processo pulsionale, che per decenni si è sviluppato lungo una data via, invochi tutto a un tratto una via nuova che gli è stata aperta”. Per l'eliminazione di questa forma di resistenza si rende necessario quel processo che Freud ha definito “elaborazione” (si parla così poco dell’importanza dell’elaborazione in terapia…). Questo tipo di resistenza può essere considerato una conseguenza di una più generale resistenza a rinunciare ad acquisite abitudini e modalità di funzionamento psicologico: una resistenza al “disapprendimento”. Per Sandler “un aspetto del concetto di elaborazione riguarda il processo con cui si apprendono nuovi modelli di funzionamento e si impara a inibire i modelli più vecchi, più saldamente stabiliti. Tale processo costituisce una parte importante del lavoro analitico. Nella letteratura analitica la resistenza del l'Es è stata indicata anche come ‘pigrizia’ o ‘viscosità’ della libido” (Sandler J. Dare C. e Holder A. "Il paziente e l'analista". Torino, Bollati Boringhieri, 1974).

Da un punto di vista tecnico avere a che fare con il diniego è un problema quanto mai complesso. Scopo della terapia psicoanalitica è quello di promuovere processi rappresentativi, utilizzare il pensiero in una modalità “come se”, creare uno spazio mentale affinché il paziente possa avere accesso a rappresentazioni più complesse, elaborate e rispondenti alla realtà, al posto di rappresentazioni rigide e primitive. Ma nel caso di un paziente che fa massiccio ricorso al diniego o alla negazione per evitare contenuti disturbanti, come lavorare? Sarebbe come cercare di imporre ad un bambino spaventato da una maschera mostruosa la visione della maschera. Oppure instillare nella sua mente la rappresentazione di quella maschera, in modo che anche quando il bambino volge lo sguardo altrove, la permanenza dell’oggetto lo ponga davanti alla rappresentazione mostruosa della maschera.

In presenza di una adeguata capacità rappresentativa, con il paziente che sa “giocare con i pensieri” insieme al terapeuta, la teoria della tecnica indica i modi con cui operare: in genere si favoriscono le libere associazioni, si mostrano al paziente gli affetti che emergono oppure le deviazioni nel suo discorso. Insomma si mostrano gli affetti senza le corrispondenti rappresentazioni oppure si mostrano i tentativi di evitare rappresentazioni che potrebbero far emergere affetti disturbanti. Un paziente che utilizza meccanismi di difesa legati alla rimozione è un paziente che utilizza operazioni mentali sulle rappresentazioni. Quindi noi possiamo in modo più o meno sicuro operare sulle sue rappresentazioni poiché egli non le tratta come realtà, ma come qualcosa che, appunto, rappresenta la realtà.

Chi è costretto a negare o denegare la realtà delle percezioni interne o esterne, invece, è legato ad una modalità di equivalenza psichica dove il mondo interno e il mondo esterno coincidono: ciò che è nella propria mente deve essere anche fuori e dunque ciò che è fuori deve essere anche nella mente. Le idee non sono sentite come rappresentazioni mentali ma come repliche della realtà, quindi sempre vere. Idee, desideri e sentimenti non hanno natura rappresentazionale ma sono “cose concrete”. Nella teorizzazione di Fonagy e Target accanto a questa modalità di funzionamento psichico (equivalenza psichica) opera contemporaneamente un’altra: il far finta. Nella modalità del far finta, che è il complemento della modalità dell’equivalenza psichica, si è consapevoli che l’esperienza interna può non coincidere con la realtà esterna, si è in grado di fare una considerazione che sarebbe impossibile fare nella modalità dell’equivalenza psichica. È quello che accade nel gioco dei bambini. Tuttavia questa modalità, nei bambini al di sotto dei quattro anni, ha una profonda limitazione: lo stato interno è nettamente separato dal mondo esterno, in quanto il bambino non è ancora capace di concepire l’esperienza interna come un fatto mentale o rappresentativo, non ha gli strumenti e le capacità cognitive di fare operazioni mentali che glielo consentano. Non vi è dunque relazione tra la modalità dell’equivalenza psichica e quella del far finta: sono due modalità di pensiero nettamente scisse. Ciò avviene soprattutto per evitare che l’equivalenza interno-esterno possa diventare minacciosa È quindi possibile interpretare la modalità del far finta come una “forma di difesa contro le conseguenze che deriverebbero dal considerare reale la realtà psichica: una sorta di disconnessione del mondo interno dall’esterno che dà spazio a fantasie consce” (Target M. e Fonagy P. in "Attaccamento e funzione riflessiva". Milano, Cortina, 2001).

I bambini, quando giocano, sanno che ciò che pensano non è reale (possono giocare con una bottiglia immaginando che sia una locomotiva anche se sanno che non si tratta davvero di una locomotiva) eppure non sono ancora in grado di operare la stessa distinzione anche al di fuori del “gioco”. Il bambino mentre gioca può giocare con i pensieri proprio perché questi, nella modalità del far finta, sono completamente privati di ogni connessione con il mondo reale. È frequente osservare i bambini di due o tre anni passare molto tempo a “negoziare” i ruoli e le regole dei giochi, lasciando poi pochissimo tempo al gioco stesso: per loro, infatti, è molto importante sottolineare una chiara e netta (e rassicurante) divisione tra “gioco” e “realtà”.

Per un paziente che faccia ricorso al diniego, la terapia può essere vista proprio come un gioco, però – e questa è una differenza fondamentale rispetto ad altri pazienti- come un gioco che è slegato dalla realtà. Infatti va bene giocare, ma poi quando si impone la realtà… (il lavoro, i soldi) il gioco finisce. E infatti spesso la terapia finisce quando il gioco inizia a mettere in discussione alcuni aspetti fondamentali della realtà. Allora il gioco diventa minaccioso, la separazione va mantenuta, spesso proprio uscendo dalla stanza dei giochi e chiudendola a chiave prima che questa si allarghi a tutta la casa!

Il fallimento dell’integrazione delle due modalità ha una valenza clinica molto forte: da un lato non vi è separazione tra realtà interna e realtà esterna, dall’altro la modalità del far finta continua ad essere disponibile come estrema modalità difensiva nei confronti di una realtà pervasiva ed opprimente.

Il persistere della modalità dell’equivalenza psichica porta, ad esempio, ad avere esperienze psichiche che possono arrivare ad essere eccessivamente reali (ad esempio flashback intrusivi e violenti legati a situazioni spiacevoli o anche a stati d’animo la cui origine è essenzialmente interna), ad una marcata intolleranza verso visioni o prospettive differenti dalla propria (“se temo che tu abbia tenuto chiusa la porta perché mi vuoi respingere, allora mi vuoi davvero respingere!”), ad avere percezioni negative di sé fin troppo reali (“se temo di essere stato poco gentile, allora sono davvero cattivo”). La prevalenza della modalità dell’equivalenza psichica, inoltre, può rendere difficile pensare ad esperienze emotivamente cariche di affetti negativi, semplicemente perché il ripensarle significherebbe necessariamente riviverle.

Dall’altro lato la disponibilità della modalità del far finta come modalità scissa e indipendente dalla realtà porta ad una scissione delle funzioni dell’Io, in modo che in conseguenza di un trauma, ad esempio, si verifichi una dissociazione con un conseguente “senso di vuoto”. Allo stesso modo, durante un trattamento psicoterapeutico, si possono osservare frasi sconnesse relative agli affetti ed ai pensieri, la presenza contemporanea di credenze contraddittorie e un frequente isolamento degli affetti dai pensieri espressi verbalmente.

È un lungo e incerto lavoro quindi quello che probabilmente è necessario fare per portare ad una integrazione delle due modalità e quindi rendere meno necessario il ricorso massiccio alla negazione: è necessario creare una connessione tra due messe a fuoco che si alternino tra loro, una mirata alla realtà esterna e l’altra allo stato interno, per un tempo sufficientemente lungo perché il paziente possa identificare la contingenza tra le due.

Ma oggi sembra non esserci più tempo, le terapie sono sempre più frequentemente monosettimanali e la stanza d’analisi deve restare una stanza dei giochi in cui “sfogarsi” e ricaricarsi.

In conclusione: da un punto di vista tecnico trattare un paziente che fa ricorso al diniego/negazione (anche solo in particolari aree) è differente dal trattare un paziente che utilizza prevalentemente difese legate alla rimozione. La tecnica delle libere associazioni può non essere sufficiente: prima di trattare i nessi tra rappresentazioni o tra affetti e rappresentazioni è necessario lasciare emergere, creare e affinare le rappresentazioni che vengono denegate. Questo forse può essere fatto, proprio come suggerisce Fonagy con pazienti borderline (sebbene rappresenti una difficoltà tecnica notevole) quasi esclusivamente attraverso un continuo lavoro focalizzato sull’esperienza transferale del paziente in modo tale da favorire una integrazione tra due modalità psichiche di funzionamento dissociate: quello che accade qui è sì un gioco, ma è proprio quello che accade lì fuori nella realtà. Quindi se da un lato (rimozione) si lavora con l focus sui pensieri del paziente, dall’altro (negazione/diniego) si lavora con il focus sulle “azioni” (transferali) del paziente. Un paziente che nega, non può che negare anche la realtà del transfert. È su questo terreno che forse ci si gioca la partita: se il transfert è sia un gioco che qualcosa di reale, allora questa integrazione favorita dalla terapia che si focalizza sul transfert diventa utile a far acquisire una modalità di funzionamento più complessa ed efficace.

Sintesi per punti:

·      Le difese possono essere raggruppate attorno a due tipologie: quelle che utilizzano la rimozione e quelle che utilizzano il diniego;

·      Diniego e negazione hanno la stessa natura, sono la stessa difesa: nel primo caso opera verso l’esterno, nel secondo verso l’interno;

·      Il diniego/negazione non implica il fallimento psicotico dell’esame di realtà: è un’operazione, seppur primitiva, che richiede un preciso ruolo dell’Io, in particolare per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse attentive;

·      Diniego/negazione e rimozione sono difese legate a due funzionamenti cognitivi differenti: prevalentemente sensomotorio nel primo caso, prevalentemente operatorio nel secondo;

·      Da un punto di vista tecnico può essere utile rifarsi alla teoria della mente di Fonagy e Target poiché il classico lavoro sulle libere associazioni (quindi focus sui pensieri del paziente e sul funzionamento della sua mente) sembra non essere pienamente efficace. Può essere utile un lavoro focalizzato sin da subito sul transfert, cioè sulle azioni del paziente (dunque sul funzionamento sensomotorio).

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