Il ruolo della psicoanalisi nel contesto attuale porta con sé una molteplicità di scenari: dalla sua rilevanza per la società contemporanea e per le sue attuali forme di sofferenza psichica, all’interrogativo sulla sua efficacia e validità. Ed in quanto complessa teoria critica, si profila l’interrogativo sulla sua capacità di comprendere e spiegare il comportamento umano, individuale e collettivo. Questo secondo versante, pone in particolar modo l’accento sulla psicoanalisi intesa come dispositivo per pensare, oltre che come pratica clinico-terapeutica.
Tuttavia, da tempo si registrano voci che vedrebbero il declino della psicoanalisi, adombrando persino una sua imminente uscita dalla scena pubblica, poiché accusata di non-scientificità e dichiarata velocemente come metodo non efficace, troppo lungo e costoso, impegnativo e dispendioso.
La psicoanalisi si troverebbe in non poche difficoltà, messa sotto il tiro di un giudizio sociale diffuso e impregnato di valori collettivi come la rapidità, l’efficienza, il minor costo possibile o la “verità scientifica”.
Come reazione, in alcuni settori della pratica psicoanalitica si ricorre al confronto con le neuroscienze o con quegli approcci definiti “evidence based” (facendo voli pindarici in barba all’epistemologia), con la speranza di poter finalmente trovare qualche conferma “dura e pura” alle proprie ipotesi.
Sembra così che anche nella riflessione psicoanalitica si infiltri quella sensazione di dubbio, incertezza e sfuggevolezza per ciò che caratterizza la sua indagine: il sistema psichico inconscio. Mentre il confronto col sapere neurologico sembrerebbe un tentativo di convincere (e, magari, autoconvincersi) che l’inconscio c’è, esiste ed è collocato in un’area del cervello.
Ciò procurerebbe un’apparente rassicurazione, poiché dire “cervello” (tangibile e concreto) parrebbe meglio di “apparato psichico”: e se le neuroscienze si fanno garanti dell’esistenza dell’inconscio, anche la psicoanalisi, essendo scienza dell’inconscio, avrebbe diritto di cittadinanza in un mondo che vuole l’evidenza.
Il “cervello” acquista così una valenza di feticcio teorico che protegge la psicoanalisi dalla complessa e sfuggente dimensione psichica inconscia, oltre che dalle critiche socio-culturali e “scientifiche”.
Ne segue che il ricorso alle “neuroscienze” talora pare motivato più dal desiderio di trovare un vaccino contro le facili accuse di “non scientificità”, piuttosto che essere un ambito di ricerca collaterale alla pratica analitica.
L’esito di una simile via per-versa comporta però una concomitante diminuzione della capacità di pensare che, a livello disciplinare, si traduce in incapacità di teorizzazione psicoanalitica. Si potrebbe così osservare come la fantasia del declino della psicoanalisi all’interno della società contemporanea sia espressione del diffuso diniego della realtà psichica inconscia: negare la psicoanalisi e la sua rilevanza per l’individuo e la collettività è una tra le tante modalità con le quali si attua il ripudio della dimensione inconscia.
Diniego dell’inconscio?
Oltre questi valori collettivi, di carattere tendenzialmente socio-economico, aziendali e, per così dire, “scientifici”, la psicoanalisi si scontra anche con quella mentalità che vuole la protervia ed effimera affermazione dell’individuo, il valore della prestazione personale e del successo.
L’idea di “uomo senza inconscio” (Recalcati, 2010), seppure inadeguata sotto il profilo di una ricostruzione teorico-clinica, si offre come immagine evocativa, cogliendo una diffusa sensazione di desertificazione e disimpegno verso quegli aspetti che concernono il desiderio che anima ogni singola persona, portando con sé l’abito sociale del rifiuto di ciò che può essere inteso come interrogazione su di sé e delle proprie passioni.
Probabilmente, questa espressione può essere meglio compresa se la si intende come inquietante figura che traduce quella profonda difficoltà, che accompagna l’individuo attuale, ad avvicinarsi alla dimensione dell’inconscio: una difficoltà così radicale e pervasiva che porta a creare la fantasia perversa di una assenza dell’inconscio. Una metafora, forse, per dire che è in atto una obliterazione di funzioni psichiche importanti: il diniego dell’inconscio.
Negazione e diniego
La forma del diniego pare dunque profilarsi non solo nell’esperienza psichica del singolo, ma essere condivisa nel contesto sociale, culturale, scientifico.
Un meccanismo psichico in grado di denegare l’implicazione emotivo-affettivo (libidico-aggressiva) avvertita come disturbante o perturbante, ma anche di impedire il riconoscimento di una realtà concernente un settore della propria esperienza.
La proposta di una distinzione tra negazione e diniego (Medri, 2016) appare utile, tanto più che al diniego può essere riservata una caratura difensiva più sottile e subdola che spesso trova accoglimento anche del tessuto sociale tramite intellettualizzazioni, razionalizzazioni o assunzione di posizioni supposte etico-morali o di apparente buon senso.
La negazione può essere intesa come meccanismo difensivo che sorge laddove vi può essere un cedimento di altre difese: la componente emotiva viene rifiutata e l’Io ricorre alla negazione per evitare qualcosa che avverte come disturbante o pericoloso.
La descrizione che Freud (1925) offre della negazione appare abbastanza chiara. Egli riporta alcuni eventi dalla pratica psicoanalitica, dove essa sarebbe in atto quando il paziente si rivolge all’analista con asserzioni del tipo: “lei domanda chi possa essere questa persona del sogno. Non è mia madre”. Oppure con dichiarazioni: “ora lei penserà che io voglia dire qualche cosa di offensivo, ma in realtà non ho questa intenzione”.
Si tratta di modalità (proiettive) con le quali viene calmierato, attraverso la negazione, qualcosa che proviene dall’associazione libera (che poi tanto libera non è) e che rimanda ad aspetti inconsci, il cui valore emotivo può essere avvertito dal paziente come conturbante.
Riprendendo le osservazioni di Freud si può osservare come in questa circostanza
il contenuto rimosso di una rappresentazione o di un pensiero può dunque penetrare nella coscienza a condizione di lasciarsi negare. La negazione è un modo di prendere conoscenza del rimosso, in verità è già una revoca della rimozione, non certo però un'accettazione del rimosso. Si vede come la funzione intellettuale si scinde qui dal processo affettivo. Con l'aiuto della negazione viene annullata soltanto una conseguenza del processo di rimozione, quella per cui il contenuto della rappresentazione interessata non giunge alla coscienza. Ne risulta una sorta di accettazione intellettuale del rimosso, pur persistendo l'essenziale nella rimozione (Freud, 1925, pp. 197-198, corsivo mio).
Il diniego, invece, sembra essere un meccanismo di difesa più radicale, per certi aspetti anche più violento. Qui, non viene negata soltanto la valenza emozionale spiacevole implicata in una rappresentazione, ma anche aspetti di realtà.
Questo fenomeno psichico appare più esteso e perciò anche più sfuggente poiché sembrerebbe intaccare l’esperienza di realtà che l’individuo vive. Nel diniego non vi è tanto il rifiuto dell’implicazione emozionale legata ad un oggetto che comunque l’individuo può riconoscere, ma sembra esservi un rifiuto dell’oggetto: a tal punto che può essere aggredita la stessa percezione.
Così si potrebbe dire che il diniego appare più esteso poiché sequestra nel non-riconoscimento sia esperienze penose, che dati di realtà e aspetti di sé.
Si potrebbe dire che nella negazione “l’oggetto o la sensazione o la percezione viene riconosciuto, ma se ne nega il valore emozionale”. Mentre nel diniego “viene negato l’oggetto o la percezione stessa” (Correale, 2012 p. 159).
Si tratta di una considerazione secondo me importante, poiché bilancia la distinzione tra negazione e diniego: la linea di demarcazione tra i due concetti vedrebbe nella negazione un rigetto del “mondo interno”, mentre nel diniego un rigetto della “realtà”.
Se questa linea di demarcazione ha il pregio di lasciar intravedere meglio le differenze tra i due fenomeni, può essere altrettanto importante sottolineare come il diniego, rifiutando la realtà, possa aggredire il sistema percettivo, impedendo, alterando o modificando il funzionamento psichico interno, pur di non cogliere la realtà.
Se è possibile utilizzare una metafora, con le sue opportune limitazioni, si potrebbe dire che il diniego espone l’apparato psichico ad un atto psichico per così dire auto-lesivo: per non vedere ciò che disturba, l’individuo non distoglie semplicemente la vista (negazione), ma può deturpare l’occhio in modo che non vi sia percezione della realtà (diniego).
Nell’atto della deturpazione viene aggredita una parte del sistema psichico, messa in qualche modo fuori uso da un sabotaggio finalizzato ad elidere dall’esperienza personale qualcosa che avviene nella realtà e che potrebbe apparire come conturbante se, per qualche ragione, venisse sollecitato a volgere lo sguardo. La denigrazione di una funzione dell’apparato psichico può essere una difesa migliore, più radicale ma più sicura, affinché il dato di realtà non tocchi l’esperienza soggettiva.
Si viene così a formare una specie di “cecità”, molto più simile, per utilizzare un paragone con la neurologia, ad una fredda emianopsia “psichica” che alla più calda e isterica amaurosi. Il risultato è una visione monoculare, e alternata, degli stati dell’esperienza di sé.
In questo modo, il diniego (spesso accompagnato da proiezione) consente il mantenimento di una “pacifica” a-conflittualità, relegando le diverse esperienze di sé in “stati” mantenuti separati, ma pervasi da ambiguità.
Si tratta di piccole o grandi manovre difensive che possono portare anche a piccoli crimini di coscienza che si possono rilevare ad un’attenta osservazione di un comportamento sociale ambiguo: ad esempio, una collega si lamenta irritata che spariscono sempre le penne dalla sala riunioni e, quando le servono, non ci sono mai. Incolpa gli infermieri, che a parer suo non hanno nemmeno nulla da scrivere. Simultaneamente, si rivolge a me (che sono nella stanza), si protende verso il portapenne che c’è sulla scrivania che ogni giorno utilizzo e commenta: “Ne prendo una da tenere in borsa”. Io domando: “chi porta via le penne dalla stanza?” Ma non ottengo risposta: mi guarda inebetita e spiega che, in questo modo, sarà sicura di avere una penna a portata di mano (o di borsa: … dev’essere una strana forma di borseggio, ai più sconosciuta!).
In lei, non c’era la minima consapevolezza che quell’atto potesse essere rubricabile come furto (e lei ladra): un comportamento che la poneva non solo al pari di quelli che, nella sua fantasia, stava indicando come responsabili del disagio creato (le poche penne a disposizione), ma che la rendeva responsabile del fatto che perpetuasse la ladraggine, recando ulteriore danno a sé (perché perderà di certo la penna) e agli altri: che pure qualche volta scrivono, nonostante la collega non possa vederlo.
Il diniego: implicazione clinica
Il lavoro dell’analisi si colloca all’interno di una struttura relazionale impregnata di potenti affetti.
Questa semplice considerazione impone gravi e intollerabili interrogativi per la persona che si difende strenuamente tramite il diniego.
La psicoanalisi questiona il soggetto su se stesso e pone in essere elementi di criticità che potrebbero essere conturbanti, chiedendo al paziente di comprendere la propria implicazione di desiderio e appagamento: cosa si esprime e cosa si appaga nel dire quel che dici? Nel fare quel che fai? Nel credere quel che credi? Nell’essere quel che sei?
Attraverso il progressivo lavoro terapeutico, questi interrogativi presto o tardi risuonano nell’esperienza soggettiva e possono rappresentare una minaccia: corrodono la corazza e le possibili divisioni interne che il soggetto ha inconsapevolmente costruito per continuare a vivere.
Aprono ad un sentimento di precarietà e incertezza che il diniego… nega: si tratta di interrogativi radicali, che mettono in questione ogni forma di sicurezza e rassicurazione; non offrono un rifugio alternativo e provocano il soggetto, esponendolo al rischio di dover attraversare le proprie lacerazioni interne.
Questo processo terapeutico, che pure potrebbe avere il pregio di apportare significative ristrutturazioni nell’esperienza del paziente, è tuttavia particolarmente osteggiato e temuto: inquieta profondamente il paziente, che non può accedere ad una visione più unitaria e complessiva di sé. Probabilmente, il diniego è al servizio della scissione/dissociazione: ma da quale angoscia si difende il paziente? Quale è la qualità dell’esperienza di sé che egli ha bisogno di mantenere denegata tramite molteplici rifrazioni (dissociazioni/scissioni) non ricomponibili?
Questi interrogativi lasciano trasparire l’ipotesi che il diniego e le relative frammentazioni difensive, scissione e dissociazione, siano secondari ad una condizione di esperienza inattingibile e che, forse, il paziente avverte come caustica.
Forse, un modo per poter procedere terapeuticamente è tentare di cogliere lo sfondo (spesso nebuloso) da cui i solchi, le divisioni, gli steccati emergono come figure difensive necessarie, utili al paziente per poter tenere comunque in vita espressioni di sé altrimenti impossibili, enigmatiche o caotiche.
Questo lavoro comporta inevitabilmente il confronto del paziente con sé stesso, a partire dalla dinamica relazionale instauratasi con l’analista. E ciò fa sì che egli remi contro: si difende come può.
L’analista infatti può fornire (o incarnare) quelle percezioni che il paziente invece osteggia col suo bisogno di dividere, corrompere o annientare: negare quel che l’altro (lo sguardo dell’analista) potrebbe rappresentare e che lo ri-guarda.
Rimanendo all’interno della metafora ottico-percettiva, la psicoterapia e l’analisi possono consentire il recupero della funzione visivo-percettiva corrotta dal diniego, muovendosi nell’ambito del ripristino delle funzioni psichiche: l’occhio e lo sguardo dell’analista (ovvero, la sua parola) possono contribuire ad una ristrutturazione del senso di sé nel paziente, che il paziente potrebbe far propria e che potrebbe risultargli più arricchita, sfaccettata e complessa.
Tuttavia, l’approssimarsi di una visione più complessa, o meno segmentale, elicita nel paziente una grave paura o angoscia per la quale è costretto a difendersi strenuamente: è in questi frangenti evolutivi, di ricostruzione della funzione psichica, che si annida il colpo di coda del diniego.
Qui il paziente sembra doversi confrontare con una nuova figura evocativa ed enigmatica: “la doppia testa”.
Immagine che potrebbe evocare l’idea che, in lui, aspetti denegati e dissociati sono sempre in atto, ma le teste possono essere due e potrebbero essere visibili in modo binoculare: la testa del paziente e quella dell’analista potrebbero riuscire a intra-vedere qualche cosa, nonostante il solchi e le divisioni.
Ma è proprio qui che l’analista potrebbe essere eliminato, con metodo Guillotin ed esito tranchant: cade la testa dell’analista, proprio in quanto rappresentazione di un possibile ripristino della funzione percettiva del senso di sé nel paziente. Il paziente irrompe con una scelta, una decisione: de-cide (de-caedere, tagliar via) di eliminare la possibilità di vedere ciò che egli può essere anche nello sguardo dell’altro (dell’analista).
Riattivando possibili legami associativi prima disconnessi/dissociati, la psicoterapia si espone dunque al rischio dell’interruzione, poiché il paziente si trova in un passaggio delicato.
Si affaccia così la decisione di non proseguire col trattamento, talora motivando questa scelta con argomenti che possono suonare un po’ posticci, razionalizzanti o giustificatori: mimando una supposta consapevolezza con argomentazioni spesso tratte dal senso comune e dal sentire collettivo, egli si aspetta che l’analista capisca, comprenda, rassicuri o che persino dia il proprio benevolo consenso.
La mimesi di questa consapevolezza pare essere sostenuta proprio da quella visione monoculare che la psicoterapia voleva arricchire con nuovi sguardi, ma che consente invece al paziente di avere la sensazione conscia (o presunzione) di saper già chi egli sia: poter sentire di essere completo, benché perversamente “dimezzato”.
Il diniego: tra social-ismo e sindromi psicosociali
Una delle difese subdole che l’analisi può incontrare in questi frangenti pare essere quella che colora il diniego coi contenuti di “buon senso”, di socialità o, meglio, di condivisione sociale.
Potrebbe infatti essere ostico porre in osservazione analitica ciò che il paziente mostra come una condizione che si aspetta che l’analista possa non solo comprendere, ma persino condividere in quanto fatto sociale, magari connotato da ovvietà.
Così, giustificare l’interruzione dell’analisi per un lavoro all’estero o perché la nascita di un figlio richiederebbe una maggiore presenza del paziente (…troppo distratto dal lavoro analitico), dichiarare problemi economici ed altro ancora, possono apparire fenomeni legittimi. Ed il paziente può aspettarsi che il terapeuta li comprenda in quanto tali, tanto possono dare l’impressione dell’ovvietà. Perché non accettare un lavoro importante all’estero, magari soddisfacente e remunerativo? Perché non dedicarsi allo sviluppo e alla costruzione della propria famiglia? Perché continuare a pagare le sedute quando viene dichiarata una difficoltà economica?
Si tratta di evenienze che possono accadere nel corso di una psicoterapia o di una analisi: anzi, possono profilarsi sin dai primi colloqui.
In linea generale, credo non si possa presupporre che queste condizioni siano sic et sempliciter espressioni di una resistenza.
Partire dall’idea che lo siano, significa togliere la possibilità di esplorare col paziente che cosa esse rappresentino all’interno dell’economia psichica e della dimensione transferale.
Tuttavia, per comprendere se siano una forma di resistenza e quale significato occupino questi fenomeni all’interno della personalità… occorre procedere con l’analisi.
Di fatto, l’analisi non può far altro che analizzare: la seduta in cui vengono comunicate queste intenzioni non può essere trattata diversamente da altre sedute, benché si profili l’orizzonte della interruzione, della sospensione o della perdita del paziente. Potrebbe, invero, capitare che sia un nodo di svolta: ma questo non lo si sa mai prima, finché non capita di vivere questa evenienza col paziente.
Tuttavia, è sempre possibile cercare di mantenere in vita il rapporto, anche quando vi è l’impressione che questo si sta interrompendo sotto il segno di una resistenza o di un oscuro auto-sabotaggio: potrebbe essere un momento di congedo temporaneo e col tempo il paziente potrebbe ritornare. Ma, soprattutto, cercare di tenere in vita la tensione relazionale offre al paziente la possibilità di conservare una qualità tutto sommato positiva del lavoro fin lì svolto, in modo che possa in futuro affidarsi ancora, anche ad altri terapeuti, qualora ne avvertirà il bisogno o il desiderio.
D’altra parte, l’analista non ha la possibilità di accedere alla realtà fattuale che il paziente vive nello stare a casa con la propria famiglia o nel proprio lavoro; così come non si fa portare un estratto conto per verificare la sua reale disponibilità economica: l’analista incontra il paziente e gli scenari di cui è testimone. Ciò che può fare (e ciò costituisce il limite di una psicoanalisi), è cercare di comprendere che cosa accade nella sua vita psichica: dopotutto, il paziente chiede aiuto ad uno psicologo e non gli si può offrire qualcosa di diverso, benché sia nelle possibilità del paziente fantasticarlo.
Tuttavia, nel caso specifico del diniego, si possono accennare alcuni aspetti peculiari che meritano di essere indicati come possibili fonti di evasività o elusività a fronte di un progressivo avvicinamento alle contraddizioni dell’esperienza di sé.
Il paziente può giustificare l’intenzione di abbandonare la terapia facendo appello ad un insieme di motivazioni che possono apparire del tutto plausibili come impegni professionali, trasferimenti all’estero, la famiglia che non lascia tempo ed altro ancora. Si invocano cioè rappresentazioni del mondo sociale: gruppi che risuonano nel mondo interno del paziente e sono rappresentativi della sua partecipazione alle loro dinamiche.
A questo proposito, potrebbe essere utile un’idea di Bion (1992), che indicava come nell’individuo vi sia una competenza sociale che egli chiama social-ismo: una dimensione gruppale della mente cui il singolo partecipa con relativa inibizione del pensiero individuale. Questa dimensione consentirebbe al singolo di ottenere risposte capaci di attenuare l’angoscia: la sensazione di partecipare ad un tessuto gruppale, alle sue idee, alle sue prospettive e promesse di realizzazione sostiene l’individuo di fronte alla minaccia dell’essere solo o impotente.
Riprendendo ed elaborando il punto di vista di Freud sui fenomeni di massa (Freud, 1921), viene descritta una condizione mentale cui i singoli sono aggregati in modo indifferenziato, partecipando ad una mentalità condivisa con relativa diminuzione dell’esercizio del pensiero individuale.
Questa sembrerebbe una condizione interna anche al singolo, che è occupato (in parte) da una dimensione indifferenziata dell’esperienza nei gruppi di cui ha (avuto) esperienza: una sorta di “gruppalità intrasistemica” che entra in tensione con le possibilità emancipative e di individuazione.
La dimensione socialistica della mente consentirebbe ai singoli di aderire, talora acriticamente, ai valori, alle norme, agli ideali (magari anche ai dogmi o ai leader) di un assetto gruppale in cambio di protezione e rassicurazione, producendo forme di dipendenza e conformismo.
In modo macroscopico, si può osservare questa dinamica in quelle forme di dipendenza a-critica da gruppi carismatici o da leader, producendo nel singolo una sensazione di pienezza e di orizzonte condivisibile di esperienza: la prospettiva di un mondo imperniato attorno ad una prevedibilità che garantisca confini stabili dell’esperienza spinge verso l’adesione del singolo al gruppo, in virtù del grado di seduttività e attrattiva che esso esercita. Il singolo si trova così a fruire, senza pensare, una condizione di esperienza che gli garantisce la possibilità di un universo già pieno di significati (Gaburri & Ambrosiano, 2003), riducendo in parte o in toto l’esercizio di un pensiero individuale.
Probabilmente, si tratta di quell’area psichica che contribuisce alla formazione dell’abitudine, dell’ovvio, della convenzionalità e del conformismo: tutto ciò che non viene messo in questione poiché possiede un grado di automatismo, di condivisione e diffusione; tale per cui chi sottopone a interrogazione l’ovvio rischia d’essere percepito fuori dal coro.
Se pure questa dimensione psichica contribuisce alla comunicazione tra gli individui e consente che questi possano formare raggruppamenti in base ad una condivisione dei sentimenti, possiede nondimeno le sue distorsioni e le sue sindromi psicosociali (Di Chiara, 1999).
Infatti, ogni gruppo si fonda in parte su qualche forma di diniego: della conflittualità tra i membri, delle rivalità o gelosie, delle aspirazioni al potere o delle differenze. L’individuo, che abita inevitabilmente i gruppi, respira anche questi climi emotivi e se ne appropria in modo da sopravviverne: l’appartenenza, l’adeguamento, la sottomissione ideologica, la fruizione di credenze sono forme con le quali viene colonizzata l’esperienza individuale da una condizione mentale a massa.
Lungo queste vie, anche la proclamazione di intenti socialmente rilevanti e magari costituenti l’identità del singolo può apparire come espressione di identificazioni ad una mentalità gruppale: il metter su famiglia, la realizzazione professionale, l’opportunità del lavoro all’estero possono essere forme di conformismo che, tramite il diniego, consentono al soggetto di sottrarsi al lavoro del pensiero individuale e di trovare un rifugio dall’ignoto.
Questa vicenda psichica può comparire durante una psicoterapia o un’analisi. A sostegno della propria volontà di interrompere il trattamento, il paziente può ripetere nella dinamica transferale un atteggiamento compiacente: può capitare che voglia dimostrare all’analista di aver compreso quegli aspetti di sé che lo riguardano, magari ostentando ed enumerando i contenuti di cui hanno discusso nelle sedute precedenti. Il ricorso al tema del lavoro, della famiglia o di altre situazioni sociali ritenute rilevanti può essere un modo col quale il paziente motiva l’interruzione sotto l’egida di una mentalità a massa che lo fa sentire meno solo: in compagnia di una moltitudine che, prendendo il sopravvento, nega le possibilità di individuazione.
Recitando la parte dell’analista e mimando la responsabilità delle proprie decisioni, giunge persino a far propria quella che ritiene essere la visione dell’analista, adeguandosi e conformandosi alle sue interpretazioni in modo a-critico, passivo, esibito e suppostamente consapevole.
L’adesività conformistica che mette in circolo nella dinamica relazionale pare qui essere sempre funzionale al diniego dello sguardo dell’altro: per non incontrare l’inquietudine che lo riguarda, riflessa nello sguardo diverso dell’analista, decide per il divorzio.
Indicazioni bibliografiche
Bion, W. (1992). Cogitations. London: Karnac Book. Trad. it. Cogitations. Pensieri. Roma: Armando, 1996.
Correale, A. (2012). Area traumatica e campo istituzionale. Roma: Borla.
Di Chiara, G. (1999). Sindromi psicosociali. La psicoanalisi e le patologie sociali. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. In Opere, Vol. 9 (pp. 261-330). Torino: Boringhieri, 1977.
Freud, S. (1925). La negazione. In Opere, Vol. 10 (pp. 197-201). Torino: Boringhieri, 1978.
Gaburri, E., & Ambrosiano, L. (2003). Ululare coi lupi. Conformismo e rêverie. Torino: Bollati Boringhieri.
Medri, G. (2016). Il diniego. Riflessioni. Pratica psicoterapeutica. Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia, 14 (1).
Recalcati, M. (2010). L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica. Milano: Raffaello Cortina Editore.