Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 10
1 - 2014 mese di Giugno
IL DIBATTITO
DOVE SONO FINITI I MATTI? DOVE È FINITO L’ARDORE PSICOANALITICO? GLI STATI PSICHICI BORDERLINE: LA FOLLIA DI OGGI
di Simone Maschietto

Curare, o almeno tentare di curare, le malattie mentali è un mestiere molto difficile e, come provocatoriamente e con rabbia può capitare che alcuni pazienti ci dicano: “voi psicoanalisti siete i più matti di tutti, siete gente malata, chiedete a noi di venire per anni a più sedute alla settimana, come sto facendo io, sdraiarsi sul lettino e credere che il vostro metodo funzioni...”, la questione della follia rimane un nodo sempre aperto tra chi cura e chi chiede di essere curato. Per certi versi anche l’analisi può sembrare un matrimonio – manicomio: chi è il matto? il paziente che delira o presenta allucinazioni, il paziente che si isola e poi scoppia in crisi violente e di natura omicida, o lo psicoanalista che per anni si offre intensamente a tali pazienti con la speranza di dare sviluppo a trasformazioni significative e profonde perché lavora sul transfert o meglio ancora che lavora attraverso i transfert?

 

Altro grande dibattito: la Psicoanalisi cura, ha un valore scientifico o è il metodo inventato da “medici matti” che credono in una fede che li sospende per anni tra illusione e realtà?

Come dice Medri, un tempo c’era l’Elogio della Follia, si era interessati ad andare a scoprire le verità esistenziali che i deliri e le allucinazioni, se decifrati, volevano esprimere; oggi sembra che l’interesse scientifico e culturale per tali gravi malattie psichiche sia scemato.

Potremmo quasi dire che se i manicomi come istituzioni fisiche non ci sono più il problema della follia comunque rimane alienato dalla società, e, quindi, dalle menti degli  individui che la compongono. In conclusione i matti rimangono sempre spinti, in qualche maniera, in fondo alla società, in passato nei padiglioni più periferici dell’Ospedale, oggi negli angoli nascosti della mente delle persone, come se il problema della follia non esistesse più.

Attualmente il ritorno della follia rimossa avviene nelle cronache nere dei giornali quando le persone “còlte da raptus” compiono omicidi all’interno della propria famiglia; allora il dibattito si riaccende, ma, spesso, in toni purtroppo voyeuristici,  o come nutrimento pubblicitario-narcisistico di un vuoto affettivo, valoriale, culturale non riconosciuto.

 

Propongo per chi si occupa di disturbi mentali un tema scientifico e socioculturale (v. le cronache nere, i dibattiti televisivi, i mass media): la follia di oggi non riguarda più la franca schizofrenia, ma gli stati borderline della personalità, ossia soggetti che in qualche modo riescono ad avere un apparente adattamento, e che però presentano una parte psicotica, o meglio simil psicotica, che a tratti si manifesta nella loro vita. Questa parte simil psicotica combina danni  (a volte irreversibili, v. gli agiti di parti violente e omicide di personalità al limite a cui stiamo assistendo negli ultimi tempi), rovina l’adattamento, e spesso la terapia farmacologica è meno incisiva in quanto la sintomatologia non consiste in deliri e allucinazioni franchi, ma in gravi distorsioni dell’esame di realtà, nell’utilizzo parziale e sfruttatorio dell’altro, nel passaggio da una ricerca relazionale fusionale a movimenti espulsivi e violenti,  in ideazioni persecutorie, in crisi di rabbia violenta e stati dissociativi, in una compromissione della sfera sessuale in forma promiscua e pregenitale, in una marcata tendenza alla perversione. Denominatore comune: la cura di questa patologia, definibile negli stati mentali al  limite, analiticamente parlando, è lunga e faticosa come per la schizofrenia. Il tormentone ritorna: la psicoanalisi costa troppo, è troppo lunga, è inefficace, meglio terapie strategiche e brevi in cui il soggetto impari a limitare i danni, ecc, ecc. Inoltre, il problema è nella vulnerabilità genetica e biologica (es. sbalzi d’umore), o nell’ambiente materno scisso tra oggetto (interno) buono e oggetto (interno) cattivo; meglio la posizione scientifica che integra le due versioni…

 

Come diceva il nostro Maestro, Sigmund Freud, la storia si ripete, anche quella clinica.

Due elementi specifici della cura psicoanalitica: lo svelamento del funzionamento inconscio e i transfert. È qui, su questi due elementi che il paziente va ingaggiato con la sensibilità e preparazione tecnica richiesta in base alla patologia che presenta – nevrotica, borderline, psicotica –. Per fare ciò occorre che il setting in cui si opera sia esso interno (personalità dell’analista), o esterno (studio privato, istituzione), sia il più adeguato possibile relativamente a tali specificità.

Capisco la sofferenza e l’impeto di ribellione di Medri e, credo, di Cabibbe quando l’istituzione non si piega ai parametri psicoanalitici: che sia reparto, o comunità psichiatrica o clinica psichiatrica, vorremmo che ascolto, lettura del fantasmatico, anche quello più arcaico, lettura dei transfert, organizzazione del gruppo degli operatori che cura di stampo rigorosamente psicoanalitico, fossero sempre presenti. Lo smarrimento e la delusione è che a livello istituzionale questo contenitore psicoanalitico, che richiede requisiti così specifici, sembra avere perso il suo fascino al di là di tutte le questioni organizzative ed economiche, che naturalmente hanno la loro forte influenza.

Cerco di rilanciare l’entusiasmo e l’ardore della Psicoanalisi cavalcando lo spirito di rivalsa  e ribellione dei due  colleghi più anziani di me: tocca alle Istituzioni Psicoanalitiche farsi sentire, tocca agli analisti ribadire nei luoghi di formazione, e nei nostri studi privati, la specificità della psicoanalisi e pubblicare, fare conoscere i risultati della nostra cura, le nostre riflessioni, la nostra metapsicologia.

 

Attualmente sto preparando una lezione all’interno di un Corso di Psicologia dell’Università Cattolica sull’efficacia della specificità psicoanalitica nella cura delle depressioni narcisistiche o caratteriali, dove spesso la sola terapia farmacologica non riesce ad incidere. Uno degli elementi specifici, rispetto all’argomento in questione, è lavorare sui tre tipi di transfert oggetto–Sé (idealizzante, speculare, gemellare) descritti da Kohut, e come esemplificazione porto un caso clinico di depressione in una organizzazione borderline a valenza narcisistica. Il paziente, all’inizio molto scettico, quando si è poi trovato in situazione di difficoltà ha accettato la mia proposta di tre sedute la settimana, motivata dal fatto che altrimenti diventava difficile lavorare sugli intensi bisogni di oggetto–Sé che il paziente presenta, e che ha sempre negato (ha giocato un ruolo importante per l’accettazione di tale cadenza il confronto con una terapia di stampo rogersiano precedente, con supporto farmacologico, impostata in modo completamente diverso, con scarsa efficacia).

Nella moda attuale dei trattamenti psicoterapeutici è inverosimile proporre una psicoanalisi a tre sedute la settimana, e farlo potrebbe apparire l’espressione di un “essere matto”, perché è “fuori  tempo” rispetto a ciò che le persone chiedono – al massimo una seduta alla settimana –, e ciò che una certa corrente clinica si sforza di perseguire – trattamenti brevi ed efficaci –:  invece ritengo sia sano avere capito che quella persona deve essere ricondotta alla sua depressione infantile, nascosta dietro ad un falso sé, e fornirgli quell’esperienza unica di coesione, fusionalita, forza, calma, che non ha ricevuto nell’infanzia e che solamente un trattamento psicoanalitico a tre sedute, a mio avviso, può garantire.

Torna al sommario